Germania

Italia e Germania: perché differiscono così tanto i numeri del contagio

15 Aprile 2020

I tragici numeri, che ogni giorno ci vengono comunicati alle ore 18 con la stessa veemenza di un bollettino di guerra, non sono ovunque simili. Ci sono paesi in cui il corona virus sembra mietere meno vittime. Ci si chiede, pertanto, le ragioni per le quali il tasso di letalità non sia ovunque identico e soprattutto che non lo sia tra paesi confinanti o vicini, molto simili dal punto di vista demografico ed economico. Ciò che emerge è che il modello mediterraneo sembra aver fallito e aver mostrato al mondo le sue intrinseche fragilità.

L’esempio che viene spesso portato è quello della Germania, in cui si riscontra un tasso di letalità molto più basso rispetto agli altri paesi europei. In particolare, se i numeri vengono confrontati con quelli Italiani e spagnoli, le differenze sono abissali.

Tra qualche ora, i numeri saranno leggermente cambiati, ma non nelle proporzioni. Se guardiamo ai positivi, i numeri tedeschi ed italiani non sono molto diversi, ma notevolmente differenti sono le cifre che afferiscono ai decessi; di gran lunga inferiori le morti in Germania rispetto a quelle in Italia. Perché? La risposta è complessa e quasi sempre parziale, poiché multifattoriale e poiché riguardante diverse sfere, quella della politica, della società e anche della cultura.

In un articolo del New York Times del 4 aprile scorso, Katrin Bennhold ha cercato di spiegare le ragioni per le quali la Germania conta una percentuale di casi fatali così bassa rispetto agli altri paesi. Con quasi 3000 morti, il tasso di letalità (calcolato facendo il rapporto tra numero di morti e casi accertati) della Germania si attesta intorno al 2.2%, nettamente inferiore al tasso di letalità italiano, che supera il 12%, a quello spagnolo (10%) e anche a quello americano (4% circa). E’ un calcolo discutibile, poiché dati certi sul tasso di letalità in piena pandemia è pressoché impossibile ottenerli,  tuttavia è certa l’esistenza di una notevole differenza tra i vari paesi.

Le fosse comuni americane hanno fatto rabbrividire l’opinione pubblica italiana, chiamata tuttavia ora a compiere un esame di coscienza collettivo poiché le proprie morti, sebbene non sia stata violentata la loro dignità  in fosse comuni da guerra, costringono a mettere in discussione un’affermazione data da sempre per assodata, ma contraddetta oggi dai fatti: il sistema sanitario italiano è tra i migliori al mondo?

Andiamo per gradi, o meglio srotoliamo la matassa partendo da come la Germania ha gestito l’emergenza. In primo luogo, bisogna dire che in Germania l’età media delle persone infette è inferiore rispetto a quella di molti altri paesi. I primi pazienti positivi al covid-19 hanno contratto il virus nelle stazioni sciistiche austriache e italiane ed erano pertanto pazienti generalmente giovani e sani. Superata questa prima fase, il contagio ha cominciato a coinvolgere persone meno giovani, ma l’età media è rimasta relativamente bassa, attorno ai 49 anni, mentre in Francia e in Italia l’età media supera i 60 anni.

Un altro fattore da non sottovalutare riguarda la capacità di analisi messa in atto dalla Germania. Fin da subito, il paese ha investito in test a tappeto sulla popolazione, permettendo così di scovare anche i casi asintomatici o aventi sintomi lievi. Ciò produce almeno due conseguenze: in primo luogo, fare test a tappeto fa diminuire la percentuale relativa di positività; in secondo luogo, permette di isolare fin da subito i positivi. Tutto questo è stato fatto, ovviamente, tenendo conto dell’alta percentuale di falsi negativi e di falsi positivi che si riscontra nei pazienti asintomatici. Il test per il covid-19 non è ancora preciso, ma la Germania e molti altri paesi hanno deciso di affidarsi in ogni caso ai suoi risultati. Forse investire sull’errore ha prodotto complessivamente risultati positivi.

Come riporta il New York Times, già a metà gennaio, quando l’epidemia sembrava un fenomeno lontano e affatto minaccioso per tutti i popoli occidentali, l’ospedale Charité di Berlino aveva già sviluppato un test e pubblicato la formula online. I laboratori di tutto il paese si erano fin da subito operati per replicare il test e fornirsi di un stock sufficiente a fronteggiare una eventuale epidemia in terra tedesca. Grazie all’efficienza con cui i laboratori tedeschi si sono trasformati in fabbriche di test, la Germania oggi conduce circa 350.000 test a settimana, gratuitamente, molto più di quanto non stiano facendo i fratelli europei. Inoltre, le autorità sanitarie hanno comunicato che, dalla fine di aprile, verrà lanciato uno studio sull’immunità finora sviluppata, che prevede test anticorpali su larga scala. Verrano testati campioni casuali di 100.000 persone ogni settimana per valutare se si sta creando un’immunità al virus.

Tuttavia, la capacità di analisi e di monitoraggio non basta a spiegare il circolo virtuoso tedesco. A quest’ultima si sono affiancate la rapidità di trattamento e il tempestivo isolamento di tutti i casi accertati, nonché la capacità di accogliere grandi numeri di pazienti in terapia intensiva.

Quello della terapia intensiva è un argomento cruciale per capire l’enorme differenza di letalità che il virus ha in Germania rispetto all’Italia. Il virus, infatti, causa polmoniti interstiziali che richiedono spesso trattamenti di terapia intensiva, compito svolto in Italia dai soli anestesisti rianimatori. Non è così in Germania, come ci ha confermato una specializzanda di neurochirurgia della clinica universitaria tedesca di Erlangen, in Baviera. Elisabeth Heynold ha vissuto un paio di anni in Italia, di cui si è innamorata dopo avervi trascorso l’Erasmus a Perugia. Ora che è specializzanda di neurochirurgia in piena emergenza corona virus, ci ha raccontato la sua esperienza e come la sua clinica universitaria sta affrontando l’epidemia.

Elisabeth Heynold, specializzanda di neurochirurgia della clinica universitaria tedesca di Erlangen

Nel mio ospedale – ci ha riferito al telefono –  si fanno arrivare solo pazienti di emergenza, ad esempio quelli con tumori grandi e in stato avanzato. La sala d’elezione è sospesa ed è rimandata qualsiasi operazione procrastinabile di alcune settimane. Nel mio reparto si operano per lo più casi oncologici che non si possono rimandare. Anche i controlli di prassi, che si fanno dopo tre mesi, o dopo un anno per tumori benigni, sono sospesi, non si fanno più”.

Il mio ospedale è stato suddiviso, tra covid positivi e covid negativi –  ha aggiunto la dottoressa  Heynold – ma se in un reparto non c’è più spazio, il paziente no-covid viene portato anche nel nostro reparto di neurochirurgia.  Abbiamo ad oggi raddoppiato i posti di terapia intensiva nel mio ospedale. Abbiamo circa 130 posti in terapia intensiva, ma l’ospedale è capace di attivarne altri 60-80 in caso di necessità. I pazienti di terapia intensiva non sono tutti in un solo reparto. Sono suddivisi nei vari reparti poiché c’è una terapia intensiva in ogni reparto. Ne ha uno il reparto di nefrologia, una quello di cardiologia, uno quello di otorino, ecc. Ad esempio, nel mio reparto di neurochirurgia, abbiamo una terapia intensiva con 14 posti letto per pazienti con neurotrauma, o pazienti post-operati, o che hanno un sanguinamento cerebrale. Questo tipo di pazienti viene tenuta già normalmente nel nostro reparto. Pertanto, ogni neurochirurgo da noi ha una formazione di terapia intensiva. Non solo, tutti i chirurghi in generale devono fare, nel loro percorso di formazione, mezzo anno di terapia intensiva, obbligatoria per tutti. Inoltre, adesso, è stata fatta una formazione veloce di aggiornamento per rispolverare la materia ed essere di nuovo capaci di gestire un paziente in terapia intensiva”.

In tutta la Germania, gli ospedali hanno ampliato le loro capacità di terapia intensiva, partendo tuttavia da una base già molto ampia. Se a gennaio la Germania era dotata di 20.000 letti di terapia intensiva, dotati tutti di ventilatori, ossia circa 34 per 100.000 persone, oggi i posti di terapia intensiva sono circa 40.000. Ma la differenza più rilevante è che i pazienti di terapia intensiva non vengono gestiti solamente dagli anestesisti, ma anche da chirurghi, che ricevono una formazione di terapia intensiva durante gli anni di specialità. Ci sono figure professionali che gestiscono le terapie intensive e si occupano di improntare le terapie, ma intanto il lavoro quotidiano è portato avanti anche dai chirurghi, i quali in questi giorni in Italia, in assenza di sale di elezione, sono letteralmente con le mani in mano.

Secondo l’”Annuario statistico del Servizio sanitario nazionale – Assetto organizzativo, attività e fattori produttivi” pubblicato nel settembre 2019 (che presenta i dati aggiornati al 2017), in Italia sono disponibili 5090 posti letto di terapia intensiva (8,42 per 100mila abitanti), 1.129 posti letto di terapia intensiva neonatale (2,46 per 1.000 nati vivi), e 2.601 posti letto per unità coronarica (4,30 per 100mila abitanti). Pertanto, l’Italia offriva all’inizio dell’emergenza meno di 9 posti per 100.000 abitanti, contro i 34 disposti dalla Germania; parliamo di meno di 1/3 dei posti che la Germania ha a disposizione per i suoi abitanti.

Terapia intensiva - Foto di Silvia Giorgis
Italia, terapia intensiva – Foto di Silvia Giorgis

Molti di noi non sapevano neppure cosa facesse veramente un anestesista prima dell’emergenza. Alcuni pensavano che semplicemente addormentasse il paziente prima di un intervento chirurgico. Molti pensano ancora che sia un qualsiasi infermiere ad intubare e non sa in cosa consiste una terapia intensiva. Oggi questa materia, ancora tutta da scoprire, giovanissima rispetto alla storia della medicina, è all’ordine del giorno e si è rilevata essenziale per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Una materia, quella della terapia intensiva, nata nel secolo scorso e ancora oggi piena di misteri. Sicuramente, l’epidemia da covid-19 porterà una maggiore attenzione nei riguardi di questo spazio tra la vita e la morte, in cui i pazienti sembrano dormire, sotto gli effetti del curaro, ma che sovente si risvegliano e tornano a camminare.

Ci si chiede se la Germania avesse un piano di emergenza nel cassetto e che sia bastato solo tirarlo fuori. Ci sono notizie contrastanti al riguardo. In ogni caso, la Germania era nelle condizioni per fronteggiare un’emergenza. “Non era previsto tutto questo – ha asserito Elisabeth Heynold – tanto che c’è una carenza di personale anche qui in Germania. La carenza che si sente oggi è dovuta in primo luogo al fatto che di questo personale prima non ce n’era bisogno. Tuttavia, c’era un esubero di posti letto, che sono stati messi a disposizione, aggiungendone anche altri. I macchinari vecchi sono stati conservati in magazzini ed ora quelli ancora funzionanti sono stati riattivati. Il problema è rappresentato dall’attrezzatura di ricambio, come i tubi, che non si trova più in commercio, ma è usa e getta. Il mercato non offre più vecchio materiale di ricambio oppure il mercato è saturato in questo momento. Il problema non sono solo le mascherine e i guanti, ma tutte le attrezzature necessarie in una terapia intensiva”.

Le differenze con la Germania non finiscono qui. Anche le misure inerenti la vita pubblica sono molto diverse, generalmente meno severe. “Ogni Land fa le sue leggi – ci ha spiegato la giovane dottoressa – ad esempio, in Baviera più vicina all’Austria e all’Italia, dove i focolai sono stati più aggressivi e incipienti, le restrizioni riguardanti la vita pubblica sono state più severe, rispetto ad altri Stati. Il sistema sanitario è lo stesso, ma le misure sulle libertà personali sono state diverse in ogni Land tedesco. In Baviera non si può uscire in più di due persone e non puoi uscire con persone che non siano della tua casa. La polizia è un po’ più forte e sono state fatte molte multe. Ad esempio, due ragazzi, non appartenenti allo stesso nucleo familiare, che erano usciti a fare una corsetta, sono stati fermati e gli è stata fatta una multa di 500 euro”. Non ci sono però restrizioni sulle distanze che si possono compiere intorno alla propria abitazione, a differenza dell’Italia, in cui è stato imposto di non superare i 200 metri dalla propria abitazione portando molti a infrangere questa regola anche solo per recarsi dal panettiere. “In altri Land, le misure non sono così severe. C’è però la percezione che le misure siano necessarie e vengono così largamente accettate. C’è anche la consapevolezza che non sia come cento anni fa, quando non era consentito fare assembramenti per motivi politici, non era possibile cambiare opinione, di leggere e fare altre cose. Oggi, con la tecnologia, fare leggi di questo tipo non è così anti-democratico. Ma c’è la percezione che le misure non debbano essere esagerate, che è importante limitare tali misure e mantenerle solo per il tempo necessario. Si discute molto dell’Ungheria e del caso Orban, ma soprattutto su come limitare il danno economico. Sono i piccoli negozi, le piccole botteghe, a soffrire di più. C’è poi una certa solidarietà. Ad esempio, io ho chiamato un piccolo negozio di giocattoli per ordinare dei regali per i miei nipoti. C’è gente che ha questa sensibilità e vuole supportare i piccoli negozi che non hanno classicamente un sistema di vendita online. Forse, però, il paesaggio di negozi cambierà”.

Italia, terapia intensiva – foto di Silvia Giorgis

Qua in Germania siamo dispiaciuti per l’Italia – ha voluto sottolineare la dottoressa Heynold –  solo nel nostro ospedale abbiamo 10 pazienti di Bergamo e ovunque in Germania abbiamo accolto pazienti italiani, soprattutto lombardi. In Italia, il virus sembra essere arrivato prima e ha colpito una fascia di popolazione più anziana, che aveva comorbidità associate. Mentre in Germania è iniziata come una malattia dei giovani, spesso sportivi. Non mi sento di dire che il sistema italiano ha fallito. Sicuramente, qui le misure di isolamento sono state molto stringenti. Chiunque abbia avuto contatti con pazienti covid positivi è stato tempestivamente isolato. Qui, si fanno visite e tamponi a casa, evitando così l’espansione del contagio. Inoltre, da qualche giorno, per i medici di base non è più consentito fare visite nelle case di riposo. Possono recarsi nelle case di riposo solo in caso di emergenza. Non ci sono più giri visite settimanali”.

Aldilà di quali siano le colpe e le responsabilità, l’Italia è chiamata a compiere un profondo esame di coscienza che dovrà coinvolgere non solo la politica ma anche i professionisti che lavorano nella sanità. Quando le responsabilità sono così spalmate nessuno è davvero colpevole? Certamente, non è il singolo che fa una passeggiata in solitaria il colpevole della tragica situazione, ma non lo sono neppure i singoli medici che si vedono triplicati i turni, o gli infermieri che sono stati trascinati nell’emergenza, ma che non hanno visto modifiche nel loro portafoglio. La loro trasformazione in eroi non è che un modo subdolo per far sì che vengano giustificate condizioni di lavoro al limite. La loro accettazione nel farsi chiamare eroi non è altro che un modo, più o meno consapevole, di piegare la testa ed alimentare una falsa narrazione della vicenda.

Ciò detto, passare dal dire che la sanità italiana è tra le migliori al mondo all’affermare che sia la peggiore significa estromettere dal discorso un ventaglio di sfumature intermedie, nel quale si colloca l’Italia, o meglio le diverse Regioni italiane. Ciò che è emerso, infatti, è che il modello lombardo ha fallito, mentre quello dell’Emilia Romagna sta rispondendo abbastanza bene. Se in Germania ogni Land ha enormi poteri di intervento nella vita pubblica, il sistema sanitario è tuttavia unico e non ci sono forti differenze di prestazioni nelle diverse parti del paese. In Italia, invece, la sanità non è uguale ovunque, il diritto alla salute non è lo stesso in Emilia Romagna e in Sicilia. Se l’epidemia dovesse scoppiare al sud, le vittime sarebbero ancora maggiori. A ciò si aggiunga, un altro fattore da non dimenticare: in Italia abbiamo una popolazione molto anziana e spesso teniamo in vita anziani in condizioni molto gravi, al limite tra la vita e la morte. Il nostro rapporto con la morte e con la vecchiaia sfiora sovente l’accanimento e l’epidemia ci ha costretto a fare i conti con queste e molte altre criticità del nostro sistema, proprio in un momento in cui il diritto alla salute è  sospeso.

 

 

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