Esteri
L’Europa sdogana Hamas ma in Israele tira aria di guerra
Le parole sono importanti. Alcune, lo sono ancora di più. Una di quelle davvero importanti, se vivi nella Striscia di Gaza, è tregua. Dalla fine dell’operazione militare israeliana Margine Protettivo, nella quale hanno perso la vita almeno 2mila persone, il 26 agosto scorso, si parlava di tregua in atto.
Il concetto, però, andrebbe rivisto, perché ormai la tregua, a Gaza, significa solo una sospensione tra un’operazione militare e l’altra. Due giorni fa, la ‘tregua’ è stata rotta dal lancio di un razzo verso Israele e dal bombardamento di Gaza. Nessun ferito, per fortuna, ma è come una sirena che suona. Perché nulla si muove nello stallo che sembra sempre più un arrocco. Di solito. Invece questa volta, come d’improvviso, molte cose si muovono.
Il governo israeliano è sotto pressione. Tensioni interne, con il premier Benjamin Netanyahu che annuncia per il 17 marzo prossimo elezioni anticipate, facendo immaginare un esecutivo ancora più spostato a destra. Tensioni esterne, con il Parlamento europeo che – seguendo un’onda nata dall’indignazione per l’ennesima operazione militare di questa estate – dopo i parlamenti di Svezia, Francia, Portogallo, Spagna, vota il 17 dicembre scorso una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina nei confini del 1967 (anno dell’occupazione dei Territori palestinesi da parte dell’esercito israeliano).
Inoltre, il 9 dicembre scorso, la Corte Penale Internazionale riconosce alla Palestina lo status di osservatore. Questo permetterebbe alla Autorità Nazionale Palestinese di portare all’attenzione della Corte i crimini di guerra e contro l’umanità dei quali un nucleo numeroso di giuristi internazionali accusa Israele per le operazioni a Gaza degli ultimi anni. Tutti colpi duri all’esecutivo Netanyahu, che paga un rifiuto ossessivo rispetto al processo di pace. Anzi, con la politica delle colonie illegali, nutrite di sempre nuove delibere per altre unità abitative, irrita anche i suoi alleati più solidi (vedi Francia e Stati Uniti).
Di tutti questi colpi, però, il più duro è arrivato ancora il 17 dicembre. Mentre l’assemblea di Strasburgo si pronunciava, il Tribunale Ue ha ordinato la cancellazione di Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. La motivazione è meramente procedurale: nell’atto di accusa della fine del 2001, quando il partito islamico venne inserito nel gruppo, mancava qualsiasi prova giuridica, essendosi basata quella decisione – secondo i giudici – “solo su indizi raccolti da web e stampa”.
Non si parlasse di una tragedia, saremmo alla farsa. I giudici ci mettono 13 anni a rendersi conto di una cosa come questa? Nel complesso scacchiere politico del Medioriente, si può prima definire terrorista un movimento che ha un enorme seguito politico, poi toglierlo per un vizio di motivazione che, evidentemente, tale doveva risultare sin dall’inizio? È evidente che la decisione è tutta politica. Restano congelati i beni dell’organizzazione, che avrà una sorta di monitoraggio per tre mesi, ma il dado è tratto.
Con questa decisione, tardiva e vagamente ipocrita, l’Europa ha tuttavia colto un elemento che era sotto gli occhi di tutti da anni: un credibile accordo di pace in Palestina è impossibile senza Hamas. Fatah e tutta la leadership dell’Autorità Nazionale Palestinese è troppo lontana da cuore della gente, fino a essere un pallido ricordo a Gaza. Bisogna coinvolgere nel processo di pace il partito islamico, cessando di fare gli errori che si sono fatti negli ultimi trenta anni.
Tanti ne ha Hamas, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (Movimento Islamico di Resistenza). La leggenda narra che sia nato ad Amman, nel 1983, durante una riunione segreta della sezione palestinese dei Fratelli Musulmani. La data di nascita ufficiale, però, è fissata al 9 dicembre 1987, in concomitanza con lo scoppio della Prima Intifada, nel giardino della casa dello sceicco cieco e tetraplegico Yassin. Come sempre le leggende hanno parte di verità: il movimento islamista, in Palestina, nasce dopo la Seconda Guerra mondiale, quando dai circoli della Fratellanza Musulmana in orbita egiziana prende un’identità propria.
Perché quella di Hamas è una storia obliqua, che si nutre di esclusioni e repressioni. Una narrazione della vittima, più che del carnefice. Perché all’inizio, l’identità si lega a quella ferita dei profughi scacciati dalla guerra del 1948, che arrivano a Gaza, con il bagaglio di rancore pronto a essere riempito dall’assistenza sociale degli islamisti e dalla loro narrazione identitaria. Se ti tolgono la terra, ti resta Dio e la tua fede cui aggrapparti.
Con loro, per anni, le fazioni laiche e progressiste palestinesi hanno sempre la meglio per anni. La scelta della dirigenza dei Fratelli Musulmani di lavorare sulle anime e non sul campo di battaglia porta la popolazione a essere più vicina alla sinistra e ai leader guerriglieri come Arafat. Altra grande differenza, rispetto agli altri palestinesi, è la dimensione nazionale: per gli islamisti la lotta è locale, non può oltrepassare i confini, mentre gli uomini di Arafat attaccano Israele in tutto il mondo, dirottando aerei e così via.
La svolta arriva con la Prima Intifada; la gerenza locale dei Fratelli Musulmani coglie il momento: bisogna uscire dalle moschee per lottare in strada, altrimenti non arriverà mai il sostegno popolare necessario a diventare egemonici. Ecco che Yassin e altri danno vita ad Hamas, cui si affianca un’organizzazione paramilitare, le Brigate Ezzedim al-Qassam, che hanno il doppio compito di intelligence interna (con la caccia ai collaborazionisti) e di lotta armata.
Il contributo durante la Prima Intifada è relativo. Resta Arafat il padre della patria, la sinistra è ancora più forte di loro. Ma il seme è gettato: gli islamisti non sono solo capaci di pregare e di dare l’elemosina, sanno anche combattere. E qui Arafat e la gerenza dei vecchi guerriglieri laici perdono l’occasione di includere nel processo politico palestinese gli islamisti, reprimendoli, assassinandoli e arrestandoli. Contribuendo ad aumentare lo smarrimento nella popolazione civile palestinese, che fatica a cogliere i motivi di una lotta fratricida.
Israele, invece, fino almeno alla fine degli anni Ottanta, commette un altro errore. Vede in Hamas una spina del fianco per Arafat, e la sostiene. Consente senza problemi il dilagare del welfare state di Hamas, che aumenta il consenso e la stima della gente verso gli islamisti. E Hamas cresce. Sembra fatta per Arafat, quando porta a casa a metà degli Anni Novanta gli Accordi di Oslo. Solo che Israele, subito dopo l’omicidio di Rabin, lavora in senso opposto dall’attuazione degli Accordi, tanto quando la dirigenza di Arafat sfrutta la situazione per arricchire una ristretta cupola di privilegiati, legati comunque alla Cisgiordania, abbandonando progressivamente la Striscia di Gaza nelle mani di Hamas.
La Seconda Intifada segna la fine di Arafat e di quel sistema di potere. Israele commette un altro errore. L’alba del 22 marzo 2004 è appena sorta sulla città di Gaza. La moschea del sobborgo di Sabra brulica di fedeli assonnati e frettolosi, che si assiepano per la preghiera del mattino. Un gruppo esce, le persone si fanno da parte, per farli passare. Con un atteggiamento rispettoso. Un uomo in carrozzina, avvolto in una coperta, accompagnato da quattro altri uomini.
Salgono su un auto, che fa manovra, prima di ripartire. Un boato copre tutti i rumori, F16 che rombano nel cielo, a bassa quota. A Gaza, non è certo un elemento che provoca stupore. Le stelle di David, simbolo dello Stato di Israele, stampigliato sulle ali degli apparecchi militari sono un’immagine alla quale a Gaza sono abituati tutti. D’improvviso, da dietro due edifici lungo la strada che percorre l’auto che trasporta l’uomo in carrozzina e la sua scorta, spuntano due elicotteri d’assalto. Fanno fuoco in un lampo, tre missili colpiscono in pieno l’auto.
Non c’è scampo: perdono la vita lo sceicco Yassin, cieco e paraplegico leader spirituale di Hamas, suo figlio, due guardie del corpo. Moriranno anche tre passanti. E’ appena stato eseguito quello che in Israele chiamano ‘omicidio mirato’, mentre per il diritto internazionale è un omicidio extragiudiziale. Gli F16 servivano per coprire il rumore degli elicotteri che si avvicinavano, guidati da professionisti esperti, come zanzare muovendosi tra le costruzioni di Gaza.
Una chiamata è partita dall’interno della moschea. Facile immaginare il contenuto: “E’ uscito. Viaggia su un auto bianca”. Nei giorni successivi alla morte di Yassin, nella Striscia di Gaza, in molti pagheranno con la vita l’accusa di essere collaborazionisti di Israele, traditori di Yassin e della Palestina. Molti di loro verranno uccisi senza processo. L’omicidio di Yassin, nella storia di Hamas, è un punto di svolta. Ancora oggi sottovalutato. Perché in quel momento, mentre l’onda lunga degli Accordi di Oslo diventa sempre più un eco lontana, impazza la Seconda Intifada, Arafat è assediato al palazzo della Muqata di Ramallah, quell’omicidio diventa una chiamata alle armi. Rende Hamas un punto di riferimento, regala al movimento una centralità nel discorso politico palestinese fino ad allora sconosciuta. E lo legittima ancor di più sulla scena internazionale.
L’ultimo errore lo commette un’imbarazzante comunità internazionale. Gennaio 2006: elezioni in Palestina. Più di 900 osservatori internazionali che definiscono ‘’le più trasparenti del Medio Oriente”. Vince Hamas, ma Ue e Usa remano contro, disconoscendone i risultati. Il governo di unità nazionale tra Fatah e Hamas non regge alle pressioni di Israele e del mondo, finisce in guerra civile. La Striscia di Gaza è consegnata ad Hamas.
Oggi, dopo due brutali operazioni militari (Piombo Fuso del 2009 e Margine protettivo del 2014), il consenso di Hamas è rafforzato. Perché, continuando a sbagliare, Israele è intervenuto con violenza cieca proprio quando Hamas è chiamata alla prova più dura: il governo. La povertà, le difficoltà quotidiane, l’assedio posto dall’esercito israeliano alla Striscia rendono la vita dei palestinesi un incubo.
Hamas perde smalto, ma le aggressioni militari la rafforzano, fanno compattare la popolazione. La decisione del Tribunale Ue sancisce quel dato che da tempo, ormai, è sotto gli occhi di tutti quelli che sperano in una pace reale in Palestina: bisogna trattare con Hamas. Bisogna riportare la gente di Gaza nella realtà, fuori dall’isolamento, per far cadere qualsiasi alibi agli islamisti chiamati a governare senza l’assedio, senza i bombardamenti, senza le sanzioni. A quel punto saranno i gazawi a decidere se li sosterranno o meno. Sperando che il bombardamento dell’altro giorno non sia l’inizio di un ennesimo errore, dal quale Hamas è sempre uscito più forte di prima.
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