Esteri

Quella bimba imbottita di esplosivo di cui non parleremo mai abbastanza

10 Gennaio 2015

Siamo europei. E poi, noi che facciamo informazione, siamo anche giornalisti. E l’attentato a Charlie Hebdo, un giornale satirico, un luogo pieno di giornalisti e disegnatori, un inseguimento di tre giorni per prendere vive (no) o morte (sì) pochissime persone, un mondo intero che guardava lì, sono stati un pezzo di storia. Una di quelle pagine che restano. Non si discute, non può essere in discussione, e anche noi de Gli Stati Generali non abbiamo avuto dubbi sulla proporzione del dramma, sulla necessità di provare a sviscerare i contesti, le cause, a tratteggiare spaventose prospettive future.

E però, guardando adesso le polveri del dramma che si posano un poco, e potendo guardare un po’ il mondo e le cose che succedono, e poi potendo riguardare dentro di noi, il segreto delle nostre emozioni e dei nostri pensieri, un po’ di male ci deve prendere. È doveroso che ci prenda. Non possiamo restare umani, se non ci prende quel male, quando leggiamo di una bambina di dieci anni, imbottita di tritolo con ogni probabilità dai miliziani islamisti di Boko Haram e poi mandata – telecomandata – a farsi esplodere per commettere l’ennesimo atto di terrorismo,  Giusto un paio di giorni dopo dei duemila morti, uccisi sempre dalle milizie di Boko Haram.

E di fronte a queste notizie, guardate nello specchio furtivo, in fondo distratto, dei nostri media, non possiamo – almeno io che scrivo non posso – negare che ci tocca di meno. Che le nostre emozioni, i nostri pensieri, le nostre rabbie, si accendono molto di meno. Di fronte ai duemila morti, di fronte alla bambina di dieci anni mandata a morire pur di uccidere. Di fronte a tutto questo, siamo più freddi nell’animo e più fermi nella testa. E l’attentato a Charlie Hebdo, a Parigi, lo sentiamo minaccioso per le nostre vite. La barbarie nigeriana, dopotutto, è solo una statistica.

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