Mediterraneo

Se sei nero in Algeria

20 Maggio 2016

di Kamel Daoud

Da qualche anno si possono vedere agli incroci delle strade delle grandi città del nord dell’Algeria delle famiglie di migranti originarie del sud del Sahara. Vengono a mendicare, acconciati con abbigliamenti variopinti : veli smisurati per le donne, anche le ragazzine; djellaba di tela per gli uomini ;  rosari mostrati in maniera ostentata. Hanno l’«Allah» troppo facile e incespicano facilmente sui versetti del Corano.

Numerosi migranti neri, anche quelli che non sono musulmani, fanno ricorso ai simboli dell’Islam per fare appello alla carità degli algerini. Perché? Perché la miseria permette di decodificare la cultura meglio della riflessione, e i migranti, senza tetto né pane, hanno presto compreso che qui, spesso, non esiste empatia tra gli uomini, ma solo tra correligionari.

Altro esempio. Nell’ottobre scorso, una migrante camerunense è stata vittima di uno stupro collettivo sotto la minaccia di un cane. La donna è andata a sporgere denuncia alla polizia, ma è stata respinta con due pretesti ritenuti giuridicamente più probanti: non aveva documenti e non era musulmana.

L’affaire Marie-Simone è diventato celebre e la vittima, appoggiata dagli algerini, ha finito per ottenere giustizia. Ma è un’eccezione.

Le cose non stanno messe così. La visione del nero in Algeria, segnata da una discreta distanza nel corso degli anni, s’è trasformata in un rigetto violento negli ultimi tempi. Non esistono statistiche ufficiali affidabili, ma spesso i migranti vengono dal Mali, dal Niger e dalla Libia. Ed è chiaro che il numero dei subsahariani qui è aumentato da qualche anno, in parte a causa dell’instabilità dei paesi vicini, soprattutto la Libia, vecchia piattaforma girevole dell’immigrazione dall’Africa all’Europa.

E se in Europa un migrante può tentare di giocare sul registro dell’umanitario e della colpevolizzazione, in Algeria, da qualche anno, l’Altro non è visibile che attraverso il prisma della confessione religione. In occidente, il razzismo vede la pelle; in terre d’Arabia vede la religione.

Tuttavia questi due razzismi sono connessi. L’occidentale nega l’arabo ( o lo incrimina), e a sua volta l’arabo nega il nero (o lo incrimina). Connessioni casuali? La negazione con effetto domino? Forse. Per adesso, la rassomiglianza, una sorta di mimetismo, colpisce.

Ma poco importa questa complessità: la si ignora facilmente. Ci sono, certamente, degli Algerini musulmani che non sono né settari né razzisti, ma contano poco nell’élite e nel discorso pubblico. Gli integralisti l’hanno vinta sul  punto di vista più moderato.

A causa di ciò, in Algeria, come in altri paesi arabi, i discorsi mediatici e intellettuali sono schizoidi. Da una parte, si possono leggere degli articoli violenti contro il razzismo in Europa, che descrivono la «Giungla» di Calais come una specie di campo di concentramento e presentati con tagli menzogneri: «Niente lavoro in Francia se siete arabi o africani» titolava un giornale islamista nel febbraio scorso. D’altra parte, si trovano delle analisi degne del Ku Klux Klan sulla minaccia posta dai neri, con il loro incivismo, e i crimini e malattie che si dice vengono a portarci.

Questo doppio discorso è curioso, ma soprattutto è comodo e devastante. Nello scorso marzo a Ouargla, uno dei più grossi borghi del Sahara algerino, degli scontri hanno avuto luogo tra i locali e i subsahariani in seguito all’assassinio di un algerino, ma soprattutto  per mano di un nigeriano. Il fatto di cronaca s’è presto trasformato in una vendetta popolare – con una caccia al migrante nelle strade che ha determinato decine di feriti e un attacco al campo dei rifugiati.

Le autorità hanno disposto il trasferimento massivo dei migranti verso un centro di accoglienza di una città più a sud, preludio consueto a una espulsione dal paese. Fatti simili sono accaduti a Béchar, a ovest.

Questa ondata di xenofobia, di una violenza senza precedenti, ha devastato il Sahara algerino senza sollevare obiezioni diffuse: la denuncia del razzismo è generalmente riservata ai crimini dell’Occidente. Abusi presso gli altri, necessità a casa nostra.

Ma com’è successo che si fa noi ciò che si denuncia altrove, e soprattutto senza sentirsi colpevoli? Com’è che la vittima del razzismo si costruisce a sua volta una coscienza razzista?

In Algeria, le élite laiche e di sinistra si sono rese miopi coltivando il trauma coloniale come sola visione del mondo. I neri, percepiti come decolonizzati o decolonizzatori, sono sia ostracizzati che idealizzati. Non sono una cosa a sé, ma una rappresentazione delle nostre preoccupazioni.

Nei loro discorsi contro l’Occidente, i benpensanti algerini immaginano di proteggere i neri denunciando il razzismo circostante. Ma neanche a parlarne di andare a visitare i tristi campi dei rifugiati, e ancor meno di vivere con i neri, di dare le loro figlie in  matrimonio o di stringere loro la mano nella stagione calda. Gli Algerini laici designano i subsahariani con la parola «africani», come se il Maghreb non faccia parte del loro stesso continente.

Gli integralisti religiosi non sono meno razzisti. In occasione di un incontro di calcio tra l’Algeria e il Mali nel novembre 2014, il giornale islamista “Echourouk” pubblicò una foto dei tifosi neri sotto il titolo «Né Buongiorno né Benvenuto. L’AIDS dietro di voi, l’Ebola davanti a voi» Ma i pregiudizi dei religiosi li spingono a un’altra equazione, semplice e mostruosa: l’Altro o è musulmano o non è.

I conservatori religiosi, come le élite laiche, vedono i neri come le vittime delle ingiustizie dei bianchi colonizzatori, ma ai loro occhi la riparazione non è possibile se non con l’aiuto di Allah. La loro propaganda ricorda spesso quell’esempio della mitologia dei primi anni dell’islam: Bilal, la schiava abissina nera liberata in seguito alla sua conversione religiosa.

Solo che per una Bilal vi sono milioni di altri neri, compresi i convertiti, che sono rimasti reclusi in cattività per generazioni. Lo schiavismo arabo è d’altra parte oggi un argomento tabù o schermato dai giudizi indirizzati contro lo schiavismo dell’occidente.

Resta che per il nero aderire all’Islam non è garanzia di sicurezza. Basta il crimine di uno solo che centinaia di altri esperiscano l’espulsione. Le spedizioni punitive a Béchar sono scattare un venerdì, giorno della grande preghiera settimanale, dopo le prediche che incitavano alla purificazione dai costumi dei migranti percepiti come leggeri. Per i conservatori religiosi, la cultura svia i subsahariani dalla stretta ortodossia – e dunque anche i neri musulmani non sono veramente musulmani.

Kamel Daoud

 

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Dalla versione francese del New York Times – Traduzione di Alfio Squillaci

 

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