Mediterraneo
L’Egitto ha fame ma Al Sisi vuole una nuova capitale nel deserto
«Qui la gente è allo stremo. L’inflazione è al 30%, il pound ha perso metà del suo valore da un giorno all’altro», dice a Stati Generali un economista egiziano che per sicurezza chiede l’anonimato. In effetti la più grande economia del Nord Africa versa in condizioni tali da obbligare il Cairo a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale. Che lo scorso novembre ha risposto con un’iniezione di 12 miliardi di dollari. E un pacchetto di dure misure di austerità, inclusi significativi tagli ai sussidi dei prodotti energetici. Tagli che si sono tradotti nel raddoppio del prezzo delle bombole di gas (usate da milioni di egiziani per cucinare) e in rincari della benzina (anche +55%).
La situazione è grave. Il governo egiziano, però, ha altre priorità. Per esempio edificare una nuova, faraonica capitale a una quarantina di chilometri a est del Cairo. Un’oasi di cemento grande quasi quanto Singapore da creare in mezzo al deserto, tra la capitale e il mar Rosso. A un costo stimato di 45 miliardi di dollari, secondo il ministro dell’edilizia abitativa Mostafa Madbouly. «L’Egitto ha bisogno di una nuova capitale come di un buco in testa» ha dichiarato di recente al Wall Street Journal l’esperto di urbanistica David Sims. Difficile dargli torto, specie se si considera che più di un quarto degli egiziani vive sotto la soglia nazionale di povertà.
Ancora, secondo i dati diffusi ad aprile dalla Banca centrale egiziana, nel dicembre 2016 il debito estero valeva circa il 38% del PIL (rispetto al 13,6% dell’anno precedente), mentre il debito pubblico era aumentato del 29%. E nonostante la ripresa mondiale, l’economia stenta a decollare. Ecco perché il governo sta valutando anche la privatizzazione di varie società pubbliche. La famosa argenteria di famiglia, per usare un’espressione cara agli italiani. È di qualche giorno fa, per esempio, la notizia di un piano di collocamento in borsa del 24% del colosso petrolifero ENPPI, di cui lo Stato detiene il 97% delle azioni.
Eppure nulla di tutto ciò distoglie il presidente Al Sisi dai suoi progetti grandiosi. L’ex militare, alla guida dell’Egitto dal 2014 dopo un golpe ed elezioni molto controverse, vuole fortissimamente la nuova capitale. In teoria, l’obiettivo è quello di decongestionare il Cairo, liberando la megalopoli da una grossa fetta della mastodontica burocrazia egiziana. Nei piani governativi, migliaia di funzionari governativi (oltre a tutti i diplomatici stranieri) dovranno dire addio al Cairo per trasferirsi nella nuova capitale, il cui nome è stato deciso da poco: Wedian, che in arabo significa “valli”. Presentando il progetto, due anni fa, Madbouly aveva annunciato che nel giro di 5-7 anni gli egiziani avrebbero avuto a disposizione una grande città nuova di zecca, con 2mila scuole, 600 strutture sanitarie fra ospedali e cliniche, e oltre mille moschee. Una metropoli in grado di accogliere 15 milioni di abitanti, contro i 18 milioni e passa che vivono al Cairo.
La costruzione di Wedian è già in corso, ma la strada non sembra essere in discesa. Il primo partner, emiratino, si è tirato indietro già nel 2015. E poi è stato il turno di una grande impresa cinese, che ha fatto dietrofront lo scorso febbraio. «L’edificazione della nuova capitale è un messaggio diretto agli egiziani – dice Silvia Colombo, senior fellow all’Istituto Affari Internazionali di Roma ed esperta di politiche mediorientali –. Al Sisi vuole apparire forte a casa sua perché sulla scena internazionale si ritrova estremamente ridimensionato».
In verità, continua la ricercatrice, «il paese ha problemi giganteschi sul fronte economico, ma anche su quello ambientale, a causa della pressione demografica crescente». Il Delta del Nilo, un tempo tra le pochissime regioni verdi dell’Egitto, è stato ormai spogliato di tutte le risorse, spiega Colombo. «Il governo centrale non ha investito nello sviluppo delle zone rurali, e quindi sempre più egiziani si trasferiscono al Cairo. Che rimane il cuore pulsante del paese». Non per niente i cairoti chiamano la loro città Misr: “Egitto”.
A dispetto delle ambizioni faraoniche, il governo egiziano non sembra avere molta fortuna con le grandi opere. Lo si è visto con il raddoppio del Canale di Suez, voluto da Al Sisi e costato più di 8 miliardi di dollari. A quasi 2 anni dall’inaugurazione, l’iniziativa non starebbe generando i benefici economici che ci si aspettava. Anzi. «A dire il vero – nota Colombo – si parla addirittura di una perdita da parte dello Stato e degli investitori privati che hanno partecipato all’iniziativa».
Bisogna però riconoscerlo: il governo egiziano è fatto da gente tenace. «I lavori per la nuova capitale stanno andando avanti mentre parliamo – osserva l’economista egiziano citato all’inizio dell’articolo –. Loro non si fermeranno, anche a costo di costruire una versione ridotta del progetto originale. La vera questione sarà vedere se il governo riuscirà davvero a convincere la burocrazia e gli impiegati statali a spostarsi laggiù, e personalmente sono molto scettico a riguardo. Nessun leader è mai riuscito a battere i burocrati al loro stesso gioco». Se e quando sarà costruita, la nuova capitale rischia di somigliare davvero a un’opera faraonica: grandiosa, ma vuota.
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