Ambiente
Dall’Egitto al Marocco eccessi e illegalità stanno portando la pesca al collasso
Parlando con i pescatori italiani – e le associazioni di categoria – non c’è bisogno di insistere per farsi raccontare le loro preoccupazioni. Specie di questi tempi, con il prezzo del gasolio schizzato alle stelle per la guerra scatenata da Mosca contro l’Ucraina.
Molti operatori della pesca industriale, e in particolare della pesca a strascico, lamentano anche una “criminalizzazione” del settore da parte di Bruxelles, che negli ultimi anni ha cercato in vari modi di ridurre l’impatto ambientale della pesca nel Mediterraneo, specie rafforzando il sistema dei controlli e regolando ulteriormente le giornate di pesca.
I pescatori artigianali sono persino più preoccupati. C’è il calo delle risorse ittiche, che rende sempre più difficile riempire le reti, ma ci sono anche la concorrenza sleale dei pescatori sportivi che violano la legge vendendo il loro pescato, e i danni ambientali ed economici arrecati da certi pescherecci che passano con lo strascico troppo vicino alla costa.
Un altro problema che i pescatori italiani segnalano spesso è che, mentre loro sono sottoposti a controlli stringenti per il rispetto delle regole (anche grazie all’Efca, la European Fisheries Control Agency), i pescatori dei paesi non-UE affacciati sul Mediterraneo hanno le mani molto più libere. «I controlli sulla sponda sud ed est del Mediterraneo sono del tutto aleatori – dice a Gli Stati Generali una fonte ben informata del settore. – Certo, per diplomazia non si può dire, però le cose stanno così. E la flotta egiziana ormai è arrivata tranquillamente a pescare sotto casa nostra».
In effetti, consultando la stampa di Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco, capita spesso di leggere di pescatori artigianali e rappresentanti della piccola pesca che denunciano illegalità costanti e generalizzate da parte dei pescherecci. Una situazione allarmante dall’Egitto al Marocco, come confermano gli esperti consultati da Gli Stati Generali.
Secondo Mohamed Samy-Kamal, ricercatore del Dipartimento di scienze marine e biologia applicata dell’Università di Alicante, «il problema in molti paesi in via di sviluppo è che l’obiettivo principale delle autorità di gestione della pesca è quello di massimizzare gli sbarchi (che potrebbero anche essere fatti in modo sostenibile e conservativo), la sostenibilità non è una priorità fondamentale». Ciò vale in modo particolare per l’Egitto, la cui popolazione ha ormai superato i cento milioni. Non a caso il paese punta ormai da anni sullo sviluppo dell’acquacoltura, ed è riuscito a diventare una potenza del settore a livello globale (non senza conseguenze per l’ambiente). Basti pensare che negli ultimi due anni addirittura l’80% dei prodotti ittici egiziani è risultato dell’acquacoltura. E d’altra parte, che le acque egiziane siano sottoposte a sovrapesca lo dimostrano i dati.
Negli ultimi trent’anni circa (1991 – 2019), gli sbarchi totali dalla pesca nel Mediterraneo egiziano sono aumentati da 40179 tonnellate nel 1991 fino a raggiungere il massimo di 89943 tonnellate nel 1999, e la media più alta di 81324 tonnellate tra il 2007 e il 2011, prima di scendere gradualmente fino a 48018 tonnellate nel 2019, spiega Samy-Kamal. «Una tendenza non dissimile da quella, generale, del Mediterraneo, che è un mare fortemente sovrasfruttato».
Ancora, sono regolari le notizie di pescherecci egiziani che sconfinano in acque territoriali di altri paesi, Italia compresa. All’inizio dell’anno scorso, ad esempio, due pescherecci egiziani sono stati sorpresi dalla Guardia di Finanza mentre pescavano a strascico a poche miglia da Lampedusa. «È una situazione che potrebbe essere dovuta all’esaurimento delle risorse ittiche all’interno della ZEE egiziana – osserva Samy-Kamal. Che aggiunge: – L’inasprimento delle sanzioni nella nuova legge sulla pesca [adottata l’autunno scorso] e il tracciamento delle posizioni delle navi erano assolutamente necessari, ma probabilmente non impediranno ai pescatori di pescare in Paesi terzi. Sono già soggetti alle leggi di questi paesi (alcune con sanzioni severe) quando vi pescano, eppure continuano a farlo. Credo anche che troveranno un modo per aggirare le nuove norme».
In Tunisia, dove la legge proibisce la pesca a strascico in acque meno profonde di cinquanta metri ed entro tre miglia dalla costa, la pesca illegale è praticata sia dai pescherecci per la pesca industriale, che operano con una licenza formale, che da barchette per la pesca artigianale attrezzate con una rete nota come kiss: un vero e proprio strascico da spiaggia, una rete a maglie molto strette che viene trascinata sul fondo in acque di anche solo tre o quattro metri di profondità, con effetti devastanti. Il kiss è una rete assolutamente illegale, e varie ONG e associazioni denunciano da anni la distruzione delle praterie di posidonia causata dal suo utilizzo da parte di centinaia di barche in tutto il paese.
Naturalmente ad alimentare il fenomeno c’è una situazione economica difficilissima. La Tunisia ha un reddito pro capite (a parità di potere d’acquisto) poco più alto di 11mila dollari, e i dati del 2021 indicano che almeno 1,8 milioni di persone vivono al di sotto della soglia della povertà. Ma decenni di pesca indiscriminata stanno avendo conseguenze disastrose sulle risorse ittiche tunisine, rendendo ancora più difficile la situazione per chi vive di pesca. È un circolo vizioso di illegalità, mancanza di controlli e risorse sempre più scarse. «Lo vedo tutti i giorni – conferma a Gli Stati Generali Racha Sallemi, ricercatrice del dipartimento di geografia all’Università di La Manouba, appena fuori dalla capitale tunisina. – Ormai c’è pochissimo pesce in Tunisia, e quello che abbiamo viene in parte esportato da voi in Italia, perché neanche lì ce n’è più. E così nei mercati si trova spesso pesce proveniente dalla Libia, dove lo sfruttamento delle risorse ittiche è ancora bassissimo, quindi se ne trova. È davvero terribile».
Sallemi ha studiato per anni le conseguenze della pesca indiscriminata su ambienti delicati come quello delle isole Kuriat e del golfo di Monastir. Secondo lei «manca una strategia chiara di protezione dell’ambiente. Dopo la rivoluzione abbiamo visto la comparsa di molti nuovi attori, la nascita di tante nuove associazioni che vogliono sensibilizzare l’opinione pubblica e richiamare l’attenzione su questioni ambientali; però la normativa tunisina sulla pesca è costituita da una legge che risale al 1994, pertanto è vecchia. Non si può agire senza una normativa chiara, ovviamente».
Le cose non vanno meglio in Algeria. La pesca marittima è uno dei settori sui quali Algeri ha voluto puntare in un tentativo (non riuscito peraltro) di diversificare la sua economia, fortemente dipendente dagli idrocarburi. Fra il 2016 e il 2018 le barche da pesca registrate sono passate da circa 5mila a oltre 5.600, per un totale di quasi 116mila posti di lavoro, secondo statistiche ufficiali: non male per un paese dove la disoccupazione si attesta intorno all’11% (e sfiora il 27% per i giovani fra 16 e 24 anni).
Anche sui media algerini sono frequenti le notizie sulla pesca illegale, tra uso di esplosivi (vietato per legge), violazioni dei periodi di fermo e delle aree protette da parte della pesca a strascico, pesca di frodo di corallo e molto altro. Pescatori artigianali e associazioni del settore denunciano periodicamente la mancanza di rispetto delle norme da parte delle barche più grandi e lamentano acque sempre più vuote, e anche i lettori talvolta commentano segnalando che al mercato trovano “sardine lunghe tre cm”.
«In Algeria la pesca industriale nelle acque vicine alla costa è massiccia – conferma a Gli Stati Generali Tarik Dahou, direttore di ricerca nel settore socio-antropologia all’Institut de recherche pour le développement francese in Marocco. – Stando alle testimonianze dei pescatori con i quali ho parlato durante i miei anni di lavoro, la pesca a strascico sottocosta è quotidiana. Si parla di decine di unità in un centinaio di chilometri di costa, per esempio, perciò è davvero un fenomeno ricorrente e su larga scala. Ciò penalizza fortemente la pesca artigianale, e tra l’altro è un fenomeno che ho osservato anche in Tunisia e Marocco».
Eppure i media citano periodicamente pescatori che accusano anche le autorità competenti, a parer loro scarsamente impegnate nel contrasto a un fenomeno che sta avendo conseguenze distruttive a più livelli: sugli habitat, sugli stock ittici, e su migliaia di pescatori, che dipendono dal mare per la sussistenza.
«C’è un problema di corruzione, sia da parte della pesca industriale che di quella artigianale – afferma Dahou. – Dei pescatori corrompono le forze dell’ordine per poter agire illegalmente indisturbati. E talvolta gli stessi esponenti degli organi di controllo sono attivi nella pesca marittima. Dei membri della Guardia costiera nazionale, ad esempio, acquistano pescherecci e praticano la pesca illegale, sicuri di poter eludere le norme ed evitare i controlli più facilmente. È un modo di aumentare il proprio reddito, molto più che attraverso la sola corruzione».
Infine c’è il Marocco. Anche grazie alle pescose acque al largo del Sahara Occidentale (l’ex colonia spagnola a cui Rabat rimane determinata a non rinunciare) il paese è un fortissimo esportatore di prodotti ittici. Il primo del continente africano nel 2016, per essere precisi. Il regno marocchino vanta una flotta da pesca da quasi 19mila barche, di cui il 36% sono pescherecci a strascico. E, come in molti altri paesi affacciati sul Mediterraneo, sovrapesca e pesca illegale sono problemi assai seri anche qui, dove infatti i pescatori lamentano spesso che le acque marine – specie quelle del mare nostrum – non sono più neanche lontanamente pescose come un tempo.
Non è un caso che, da anni, Rabat punti massicciamente sull’acquacoltura per compensare il calo delle catture in mare. Mohamed Naji, professore di economia della pesca all’Institut agronomique et vétérinaire Hassan II di Rabat, è uno dei massimi conoscitori del settore in Marocco. A Gli Stati Generali conferma che il Mediterraneo marocchino è sottoposto da anni a un sovrasfruttamento tale da essere ormai irriconoscibile. «Prendiamo il caso di specie pelagiche come la sardina, l’acciuga, il maccarello – dice Naji –. Fino a cinque anni fa se ne producevano facilmente quarantamila tonnellate. Quest’inverno [a cavallo tra il 2021 e il 2022] la produzione non ha superato le diecimila tonnellate. Non si era mai visto niente del genere. Ma è tutta la biodiversità, in generale, a subire le conseguenze del sovrasfruttamento».
Per Naji i problemi fondamentali sono due. «Da una parte c’è la mancanza di disciplina da parte dei pescatori, che non rispettano le norme sulla pesca. E dall’altra c’è lassismo da parte dell’amministrazione, che non fa rispettare le leggi, i regolamenti e i piani di gestione». Anche il Marocco, infatti, ha leggi ben precise per il settore: lo strascico, ad esempio, è proibito entro una distanza che per il Mediterraneo va dalle 1,5 alle 3 miglia marine dalla costa. Tuttavia, «la maggior parte dei pescherecci a strascico non rispetta questa legge e opera molto vicino alla costa – afferma Naji –. Talvolta pescano addirittura nelle nursery, le zone di riproduzione. In questo modo infliggono danni gravissimi perché pescano pesci che non hanno ancora potuto riprodursi».
E quando le risorse cominciano a scarseggiare gli animi si scaldano. I media marocchini seguono meno da vicino il settore della pesca rispetto a quelli algerini e tunisini, ma riportano notizie di proteste da parte di pescatori contro colleghi di province vicine che sconfinano, per esempio, o contro barche che pescano senza licenza, in zone e periodi vietati. Naji non solo conferma che i conflitti esistono, ma specifica che talvolta gli scontri tra piccoli pescatori e pesca industriale sono davvero violenti. Cosa che non lo sorprende, aggiunge. «La flotta a strascico ormai è entrata in una spirale infernale. Deve pescare di più per far sì che l’attività sia redditizia, proprio perché ormai c’è poco pesce. Ma così contribuisce ad aggravare la situazione». Naji ritiene che le autorità dovrebbero intervenire, perché senza il rispetto delle leggi, dei piani di gestione e dei ritmi biologici, ci sarà il collasso della pesca. «E francamente è proprio quello che si comincia a vedere. La pesca è al collasso» osserva.
Un modo di dare sollievo agli stock ittici è la creazione di aree interdette alla pesca. Un esempio di successo è la Fossa di Pomo, nell’Adriatico settentrionale, istituita nel 2017 grazie a una campagna di ong e associazioni per la protezione del mare, che hanno spinto Italia e Croazia a stipulare un accordo. Anche in Marocco sono state create delle aree protette, sia sulla costa mediterranea che su quella atlantica. Ma, come nel resto del Mediterraneo, il fatto che una zona protetta esista sulla mappa di per sé non ne garantisce la reale protezione. Fra il 2009 e il 2013 Naji è stato coinvolto in prima persona in un grosso progetto in collaborazione con una ONG statunitense per creare tre aree marine protette in Marocco, una delle quali nel Mediterraneo occidentale. Ma, come racconta a Gli Stati Generali, la reazione dei pescatori non si è fatta attendere. «L’area protetta nel Mediterraneo occidentale è stata assolutamente saccheggiata – racconta. – Avevamo costruito anche una scogliera artificiale per proteggerla ma è stato tutto distrutto dai pescatori a strascico, contrari all’istituzione di aree protette nelle zone in cui avevano l’abitudine di pescare. Il tutto sotto gli occhi dell’amministrazione, senza che nessuno intervenisse per fermarli».
Sovrapesca, pesca illegale, distruzione degli ecosistemi marini e mancanza di protezione efficace delle aree marine protette sono fenomeni gravi che flagellano tutto il Mediterraneo e, in realtà, tutti i mari e gli oceani del mondo. Fortunatamente il livello di attenzione sta aumentando, ma c’è ancora moltissimo da fare per combattere dei problemi che hanno conseguenze devastanti, anche sulle possibilità di successo dell’adattamento ai cambiamenti climatici. E che, come dimostrano i casi di Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco, sono aggravati anche da disuguaglianza socio-economica e mancanza di giustizia sociale.
Immagine in copertina: Pixabay
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