Mediterraneo
Algeria ‘Aiutateci isolando il fondamentalismo’ (intervista a M. Helie Lucas)
Le recenti sollevazioni popolari in Sudan e in Algeria meritano attenzione e solidarietà, ma anche un’analisi attenta delle forze in campo. In Sudan, nella mobilitazione contro la giunta militare che hasostituito il dimissionario Omar al Bashir gioca un ruolo di primo piano la Fratellanza Musulmana finanziata da Turchia e Qatar e brodo di cultura politico del qaedismo. In Algeria – come ci spiega Marieme Helie Lucas nell’intervista che ci ha rilasciato – il tentativo dei fondamentalisti islamici di infiltrarsi nelle mobilitazioni prima contro Bouteflika e ora contro i militari e il governo di transizione è visibile e anche se finora è stato respinto continua in modo sempre più aggressivo. Aldilà dei paragoni storici tra epoche e fenomeni storici lontani e differenti, che andrebbero forse approfonditi, l’ammonimento lanciato dall’intellettuale algerina alla sinistra europea appare corretto ed è quello di scegliersi con attenzione gli interlocutori.
C’è un altro aspetto che ci è sembrato interessante da approfondire, vista la recente pubblicazione di un saggio a cui Marieme ha scritto la prefazione e riguarda il legame tra la storia dell’Algeria negli anni immediatamente successivi alla conquista dell’indipendenza e la situazione di oggi. Cosa può insegnare quella storia a noi e soprattutto ai giovani algerini che oggi si battono per la democrazia e la giustizia sociale? Uno degli argomenti con cui molti, anche a sinistra, hanno difeso regimi postcoloniali autoritari in Medio Oriente e in Africa, da Gheddafi ad Assad, è che si tratterebbe di regimi duri, certo, ma laici, di un argine al dilagare dell’integralismo religioso. I lunghi anni di governo di Bouteflika in Algeria sono l’ennesima conferma che in realtà quei regimi e in generale molti regimi postcoloniali, spesso nati sotto le insegne del ‘socialismo’, hanno lasciato insoluti numerosi problemi e così facendo hanno creato terreno fertile al diffondersi del fondamentalismo islamico come risposta reazionaria alle disuguaglianze sociali e alla mancanza di libertà. L’egemonia politica del fondamentalismo in alcune regioni del mondo è anche frutto dei fallimenti della sinistra.
Di recente sei stata coinvolta nella pubblicazione di un libro intitolato Le début de l’autogestion industrielle en Algérie, di Damien Hélie. Nella prefazione hai scritto che ‘purtroppo la gioventù algerina non conosce la propria storia. E la storia recente del nostro paese mostra che le giovani forze della nostra società, in cerca di giustizia e libertà, cercano le radici delle proprie lotte in quelle delle epoche precedenti’. Oggi l’Algeria è nel caos. Che lezioni potrebbero ricavare i giovani algerini dalle lotte a cui ti riferisci?
Nel passato e anche oggi in Algeria la storia non è stata insegnata in modo soddisfacente: non è avvenuto nel periodo della colonizzazione, per ovvi motivi, poiché le popolazioni colonizzate agli occhi delle potenze coloniali non esistono, noi non abbiamo una storia fino a che loro non ci hanno portato la civiltà! Ma non è accaduto neppure dopo l’indipendenza, quando il mito della nostra gloriosa rivoluzione ha soffocato ogni tentativo di realizzare uno studio scientifico della nostra storia o di elaborare una conoscenza militante e di trasmettere lo spirito delle lotte sociali di quell’epoca e non soltanto della lotta di liberazione nazionale.
Che contributo dà il libro a questo riguardo?
Il libro di Damien Helie ci racconta della situazione verificatasi subito dopo l’indipendenza, quando ‘l’autogestione’ nel settore industriale fallì nel tentativo di attribuire un reale potere ai lavoratori. La loro influenza sulla società fu rapidamente arginata attraverso la designazione di ‘direttori’ di fabbrica, nominati dalle autorità e dotati di un potere decisionale sovraordinato ai comitati di gestione e ai loro presidenti eletti. D’altra parte – osserva Damien Helie – la maggioranza dei lavoratori scelse di godere di un salario dignitoso lavorando in un’azienda statale piuttosto che assumersi una qualche responsabilità partecipando all’autogestione delle fabbriche in cui era impiegata. All’epoca né il governo né il sindacato fecero alcunché per quanto riguarda l’educazione politica dei lavoratori. Questo è quello che il libro racconta della situazione politica di allora, di cui ciò che la gente sta denunciando oggi in piazza, a decenni di distanza, è la conseguenza.
Insomma le conseguenze delle scelte di allora si sono ripercosse sulla storia del paese nei decenni successivi…
Esatto. Come sapete noi siamo stati in un regime monopartitico dalla fine degli anni ’80 e ciò implica che avevamo un solo quotidiano (El Moudjahid), un solo sindacato ecc., tutto sotto il controllo del governo. Durante la lotta di liberazione (1954-1962), abbastanza comprensibilmente, avevamo un’unica organizzazione, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), che non permise lo sviluppo di iniziative in conflitto con la linea della maggioranza. Il Partito comunista algerino affrontò questa situazione nel modo peggiore: entrato in campo tardi, nel 1956, esso volle aderire al FLN come partito e arrivò a stabilire dei focolai di guerriglia autonomi che furono attaccati dalle forze del Fronte e costretti a sparire dalla scena. La totale cancellazione di qualunque forma di organizzazione fuori dai confini del sistema monopartitico imperniato sul FLN proseguì anche dopo la conquista dell’indipendenza.
Il libro di Damien Helie cattura proprio il momento in cui la società algerina iniziò a strutturarsi dopo l’indipendenza. In questo senso è un testo molto prezioso, poiché fornisce alcune nozioni sul modo in cui si è formata la classe dominante che oggi le manifestazioni di piazza stanno cercando di cacciare. E’ una storia che ai giovani algerini non è stata mai raccontata. E credo che proprio perché nessuno ha spiegato loro che in passato altre generazioni erano state coinvolte in grandi mobilitazioni sociali, da cui era possibile trarre degli insegnamenti, che molti di loro negli anni ’90 caddero preda dell’estrema destra fondamentalista. I giovani che oggi continuano a scendere in piazza non hanno vissuto quel ‘decennio buio’, come lo chiamiamo noi, in cui il paese si ritrovò schiacciato dal fondamentalismo in armi. Questo è il momento giusto per cercare di dare alle loro menti un nuovo nutrimento.
Lotte per la libertà e per la giustizia sociale: come si legano?
In Algeria la lotta per la liberazione nazionale e quelle per la giustizia sociale dopo l’indipendenza sono rimaste del tutto disconnesse tra loro. La posizione ufficiale era: ora che al potere c’è il ‘popolo’ non c’è più bisogno di fare opposizione al governo, né abbiamo bisogno di sindacati ecc. Ovviamente la ‘nuova classe’, come la chiamò all’epoca Milovan Gilas nell’ex Yugoslavia, approfittò di quel periodo per assicurarsi che il sistema politico la avvantaggiasse come classe sociale, anche se in quella fase iniziale essa non riuscì a ottenere il possesso dei mezzi di produzione – come recitava la classica formula. Tuttavia, pur non essendone proprietari, godevano dei benefici di ciò che quei mezzi producevano.
Ovviamente c’erano forti disuguaglianze e di conseguenza si svilupparono dei movimenti sociali, che però venivano schiacciati, talvolta con grande violenza, sia che fossero espressione di problemi locali sia che avessero carattere culturale o di classe. Ci vollero alcuni decenni prima che i disoccupati si ribellassero, come avvenne nel 1988. La loro mobilitazione fu aspramente repressa e tuttavia il governo decise di allentare la propria presa sulla popolazione. Fu la rivolta giovanile a innescare il processo che portò alla fine del sistema monopartitico e all’affermarsi di politiche liberali. Ma quando partiti, sindacati, quotidiani e organizzazioni popolari tornarono improvvisamente legali l’unica vera potente forza politica già organizzata negli anni della clandestinità era la destra religiosa, mentre nessuno di noi era pronto alla battaglia che si preannunciava in quei giorni. Gran parte dei vecchi e dei nuovi partiti era totalmente impreparata quando si trovò ad affrontare questa situazione e alcuni reagirono cercando di cooptare la destra religiosa come genuina rappresentante del ‘popolo’. Una scelta che certo non aiutò…
Dopo l’indipendenza i lavoratori algerini ebbero l’occasione di prendere il paese nelle proprie mani, ma, come hai spiegato, fallirono. Oggi, dopo le dimissioni di Bouteflika, hanno un’occasione analoga? Che differenze ci sono tra allora e oggi?
Ovviamente anche oggi stanno cercando di sfruttare l’opportunità che si è presentata, ma la situazione è totalmente differente. Dopo l’indipendenza il paese era in una sorta di limbo: gli europei, che rappresentavano la quasi totalità della forza-lavoro qualificata, dei quadri e dei tecnici, lasciarono l’Algeria nel periodo compreso tra il cessate il fuoco e l’indipendenza, cioè tra l’estate e la primavera del 1962. Due milioni di europei lasciarono l’Algeria nell’arco di circa tre mesi… Se il popolo algerino voleva mangiare doveva assicurarsi che le fattorie continuassero a produrre cibo e lo stesso vale per le poche industrie che avevamo. La parola d’ordine era sopravvivere. L’Algeria riuscì a sopravvivere, a sfamare la popolazione, ad aprire le scuole alla fine dell’estate, a pagare gli stipendi, a tenere in funzione gli ospedali ecc… E questo già fu un miracolo. E’ ciò che è passato alla storia come ‘autogestione’: una strategia provvisoria per sopravvivere.
Nei decenni successivi all’indipendenza, l’Algeria conobbe un’ industrializzazione abbastanza rapida da rispondere ai bisogni elementari della popolazione. Inoltre lo Stato nazionalizzò il petrolio e in questo modo si arricchì. L’autogestione nell’industria morì nel giro di pochi anni (quando non era più necessaria come strategia di sopravvivenza), ma nel frattempo furono costruite nuove fabbriche, in un primo tempo erano statali ed etichettate come parte di una ‘economia socialista’, ma in seguito vendute a imprenditori privati, sia nazionali che stranieri. Il paese, così facendo, conobbe una transizione dal socialismo al capitalismo di Stato e infine al capitalismo privato. A quel punto gli introiti derivanti dal petrolio si esaurirono rapidamente. La crescita della popolazione era esplosa e la vasta maggioranza era costituita da giovani e disoccupati.
Le attuali circostanze non possono essere paragonate alla situazione seguita all’indipendenza. Il problema oggi non è radunare tutte le forze del paese allo scopo di garantirne la sopravvivenza nelle condizioni relativamente dure dell’epoca, bensì assumere il potere politico. E come ci si aspettava chi al momento detiene quel potere non sta facilitando questo compito. E’ stato fatto troppo poco per formare quadri politici competenti. L’entusiasmo e il coraggio della gente, necessari a dare vita a un reale cambiamento, ci sono, in modo molto palpabile, ma i pochi potenziali leadernon riescono a mettersi insieme per realizzare un progetto politico condiviso. Stavolta abbiamo una lunga strada da percorrere prima di vincere questa battaglia politica.
Cosa ha a che fare con questa situazione l’arresto di Louisa Hannoun del Partito dei Lavoratori algerino?
Louisa Hannoun non è certo l’unica persona arrestata in queste settimane. La repressione si concentra contro militanti, manifestanti, esponenti delle minoranze locali, imprenditori, capitalisti ed ex politici appartenenti al vecchio regime, attivisti per i diritti umani ecc. Politicamente sarebbe difficile inquadrarli tutti nella stessa categoria! Coprono l’intero arco dalla destra alla sinistra.
Ci sono molte iniziative sia nel paese sia a livello delle organizzazioni internazionali per I diritti umani per chiedere la loro liberazione e che vengano celebrati processi minimamente equi nei tribunali, ma già alcuni attivisti sono morti in carcere dopo un lungo sciopero della fame e altri sono morti per mano della polizia. Allo stesso tempo però è una repressione che non può essere paragonata a quella in atto in Sudan. Naturalmente non si può escludere la prospettiva di una repressione di massa nel futuro, ma, finora, l’esercito non sembra pronto a obbedire a ordini di quel genere.
Nei mesi scorsi abbiamo assistito alla sollevazione in Sudan e alla mobilitazione che ha abbattuto Bouteflika: è tornata la ‘primavera araba’?
In realtà mi auguro che faremo meglio della ‘Primavera araba’. Alle fine infatti questa non ha portato vantaggi alla popolazione, né in Tunisia né in Egitto. Anzi ha portato al potere forze conservatrici che ora è difficile smuovere da lì. La caratteristica comune tra ciò che sta accadendo in Algeria e le primavere arabe è che c’è una lotta ‘contro’ i governi in carica e contro la classe dominante. Si tratta di lotte ‘contro’, appunto, e non di lotte ‘per’, caratterizzate da un programma politico. D’altra parte però numerosi gruppi stanno lavorando molto e con grande impegno per elaborare un programma comune, condivisibile da molti. Così anche alcuni gruppi locali, a livello di piccoli centri e grandi città, organizzano assemblee per discutere i propri bisogni e le proprie aspirazioni, cercando di dare vita a un solido movimento politico progressista, che è ciò di cui abbiamo bisogno. Ciò richiederà tempo, naturalmente. Il problema è se ne avremo abbastanza di tempo…
Tu hai fondato il sito SIAWI (Secularism Is A Women’s Issue). Quanto è alto il rischio fondamentalista in Algeria? E che ruolo possono giocare le donne per evitarlo?
Il rischio che le forze integraliste escano alla luce del sole è sempre molto alto, anche se oggi sono molto pochi quelli che le riconoscono come un punto di riferimento. Del resto, nulla di nuovo: alla vigilia delle elezioni del 1991 e del 1992 tutti i miei amici ad Algeri rifiutavano di ammettere il rischio che la destra religiosa prendesse il potere in modo legale e ‘democratico’. Oggi c’è lo stesso rifiuto. Personalmente osservo che i fondamentalisti sono chiaramente parte della mobilitazione nel paese. Naturalmente per il momento vengono cacciati dalle manifestazioni dagli elementi progressisti del movimento. Perciò hanno iniziato a organizzare manifestazioni separate sotto il loro controllo; Succede, ad esempio, nella periferia di Algeri. E i loro slogan sono ‘No alla democrazia’, ‘Vogliamo un’Algeria islamica’ e ‘Vogliamo la sharia’…
Come hanno fatto a sopravvivere agli anni ’90?
La nostra estrema destra religiosa, cioè i gruppi integralisti armati che devastarono il paese nel corso degli anni ’90, è stata risparmiata da Bouteflika con la scusa della riconciliazione nazionale. I suoi esponenti sono rimasti organizzati e quasi certamente armati fino ai denti. Hanno iniziato una strategia entrista che sta portando frutti: in questi ultimi anni hanno recuperato il 30% all’Assemblea nazionale. Come si può realisticamente sperare che non cercheranno ancora una volta di prendere il potere?
L’enorme errore commesso da molta gente di sinistra è guardarli come legittimi rappresentanti della gente che lotta contro il sistema. Ma essi rappresentano un movimento politico di estrema destra, popolare, certo, e populista allo stesso tempo. Condividono molti elementi dell’ideologia fascista e nazista, basta sostituire la parola ‘razza’ con ‘religione’ e per il resto c’è tutto: sono una religione superiore, con un passato mitico (non la razza ariana o il glorioso passato di Roma antica, ma l’Età dell’Oro dell’Islam), che giustifica ai loro occhi l’eliminazione fisica dell’Untermensch (basta aggiungere ‘infedele’ o ‘kofr’ alla lista di proscrizione comune contenente già ebrei, comunisti, zingari ecc.). Sono fautori del capitalismo e pensano di risolvere le disuguaglianze sociali, secondo loro create da dio, con l’elemosina (la zakkat), Infine relegano le donne ‘al loro posto’ secondo la nota formula nazista: ‘in chiesa (in questo caso diremmo ‘in moschea’), in cucina e vicino alla culla’…
Le mie amiche femministe in Algeria hanno deciso di non citare il secolarismo tra le loro rivendicazioni e poche settimane fa la ‘piazza femminista’ è stata attaccata fisicamente da uomini che ovviamente sono in sintonia con l’ideologia fondamentalista…
I lavoratori, le donne e i giovani italiani come possono sostenere la vostra lotta per la libertà e la giustizia sociale?
Il modo migliore per aiutarci e innanzitutto badare a casa vostra, cioè non sostenere i fondamentalisti nel vostro paese, analizzare i loro programmi e per quali obiettivi si battono, cioè che essi non rappresentano un movimento religioso, ma un movimento politico di estrema destra. Date voce alla nostra opposizione progressista, alle attiviste femministe, ai rappresentanti sindacali ecc. I fondamentalisti non sarebbero così forti se non godessero di appoggi in Europa, in quanto riconosciuti come ‘espressione del popolo’. Del resto non tutti i movimenti popolari devono essere sostenuti: anche il fascismo e il nazismo furono movimenti popolari…!
Sarebbe un esito terribile se alla fine, come nelle primavere arabe, a beneficiare della rivolta popolare in Algeria fossero movimenti politici di estrema destra. Dobbiamo impedire che succeda. Quindi scegliete con cura chi sostenere e non fatevi ingannare dalla pretesa dei fondamentalisti di rappresentare ‘il popolo’.
Marieme Helie Lucas è una sociologa algerina, politologa a scrittrice. E’ nata in Algeria e ha partecipato alla guerra di liberazione. Ha fondato e diretto il coordinamento internazionale Women Living Under Muslim Laws, una rete di solidarietà che fornisce informazioni, sostegno e un ambito di discussione collettiva alle donne. E’ anche fondatrice del sito Secularism Is A Women’s Issue, che focalizza la propria attenzione sull’erosione degli spazi di laicità nella società attuale e combatte ogni forma di integralismo.
L’intervista è apparsa sulle newsletter di PuntoCritico.info del 25 giugno.
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