Medio Oriente
Viaggio tra gli ospedali israeliani
From: susan dabbous
To: fiammetta martegani
Cara Fiammetta,
ti scrivo perchè ho due amiche, straniere, che devono scegliere l’ospedale dove partorire a Gerusalemme. Io ascolto le loro ansie e rivendico la mia scelta di essere andata a partorire in Italia, anche se so che qui i reparti di ostetricia sono eccellenti, soprattutto nei grandi ospedali come Hadassa, che corrisponde al nostro Policlinico.
Dai racconti delle mie amiche, i ginecologi israeliani che le stanno seguendo fanno estremo ricorso alla medicalizzazione e hanno poco tatto quando le ecografie non sono chiare. So che sfato un mito, perché tu, come molti, mi dirai: ma come? I medici israeliani, sono noti in tutto il mondo per essere all’avanguardia! Sarà, ma, a quanto pare, almeno a Gerusalemme, siamo un po’ indietro.
Poi c’è anche un altro aspetto, quello politico, per cui ho amiche europee che sono andate a partorire a Betlemme o in Giordania per evitare il luogo di nascita così problematico per tutti i paesi che non riconoscono Israele. Per prendere una decisione del genere, tuttavia, non si può certo essere ansiose di carattere: immagina di avere le contrazioni al checkpoint e dover rispondere a una delle tipiche domande del tipo: “what’s your purpose in Israel?”
E tu, personalmente, che esperienza hai avuto partorendo a Tel Aviv?
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Carissima Susan,
come sempre quando parlo con te mi rendo conto che Tel Aviv e Gerusalemme sono davvero due mondi diversi.
Sarò stata particolarmente fortunata ma sono finita, letteralmente, nelle mani di un ginecologo eccezionale che si è preso cura di me e di mio figlio dal giorno in cui ho scoperto di essere in cinta fino al giorno in cui lo ha messo al mondo, essendosi trattato di un cesareo, e lo ha fatto affiancato da una splendida equipe costituita da un caposala arabo e un anestesista russo, come nel migliore degli stereotipi sugli ospedali israeliani.
Gli arabi israeliani, infatti, hanno un accesso privilegiato alle facoltà di medicina perché hanno bisogno di un punteggio minimo, rispetto a quello dei colleghi ebrei, per via di una legge voluta appositamente per facilitare l’accesso all’istruzione dei cittadini arabi israeliani.
Accanto all’alta percentuale di personale arabo c’è anche un’altissima percentuale di personale di origine russa: ebrei che non hanno perso l’occasione di immigrare in Israele subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica e che hanno avuto la fortuna di studiare medicina in madre patria.
Così quando si entra in ospedale in Israele, non soltanto in sala parto, le due lingue dominanti che si sentono tra il personale sono spesso arabo e russo: una delle tante anomalie di questo strano posto dove i segnali stradali hanno tre lingue (arabo, ebraico ed inglese) ma dove, purtroppo, sono pochi i casi in cui chi ci abita le conosce davvero tutte e tre.
Forse bisognerebbe proprio cominciare dalla lingua, ovvero dalla comunicazione, per portare avanti, prima ancora del processo di pace, il progresso e il rispetto nella vita quotidiana, non soltanto quando si tratta di attraversare un checkpoint.
Tra le altre assurdità di questo paese, lo sapevi che all’ospedale Rebecca Sieff di Tzfat dal 2013 c’è un programma di soccorso per i profughi siriani che riescono ad attraversare (clandestinamente) il confine?
From: susan dabbous
To: fiammetta martegani
Cara Fiammetta, da quanto ne so io, dalla parte israeliana del Golan c’erano delle ambulanze pronte a soccorrere i feriti siriani: erano gli israeliani stessi a favorire gli sconfinamenti con i loro equipaggiamenti. Negli anni scorsi, soprattutto nel 2013, sono stata davvero tentata di andare a visitare i feriti siriani in ospedale ma ho desistito davanti alla scarsa propensione che avevano a parlare in uno stato nemico. Quando i siriani che hanno qualcosa da nascondere apprendono che sono siriana pensano immediatamente che io sia una spia: un’ accusa davvero comica. Una spia, io? Con la mia faccia da una che non dorme abbastanza e il mio istinto sfrenato a fidarmi del prossimo?
Tornando agli ospedali israeliani e alla loro politica di cercare di salvare gente di tutti i popoli, trovo che sia il segno di una società davvero civile e avanzata, moderna, matura e umana, soprattutto quando curano i feriti gravi di Gaza nel bel mezzo di un conflitto. Mentre il Ministero della Difesa li bombarda, il Ministero della Salute gli garantisce delle cure sofisticate da primo mondo. Non la trovi una gran bella contraddizione?
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Carissima Susan, visto che io siriana non sono e fortunatamente nessuno mi scambierebbe mai per essere una spia, nel 2014 sono andata di persona a visitare l’ospedale di Tzfat, dove, dal 2013, soccorrono siriani gravemente feriti a causa della guerra civile.
Da allora, molti di siriani hanno ricevuto soccorso nei quattro ospedali più vicini al confine siriano, tra cui quello di Tzfat.
È qui che si presentano i civili, anche bambini, che si affidano ai medici israeliani, portando con sé il referto clinico dei “colleghi” siriani.
Come mi aveva spiegato il Professor Colin Shapira, vicedirettore dell’ospedale di Tzfat, i medici siriani sono consapevoli di quanto la tecnologia israeliana sia all’avanguardia nel campo delle protesi, a cui, purtroppo, sono costrette a ricorrere molte delle vittime dei bombardamenti del governo di Assad.
«Cerchiamo di fare davvero il possibile – mi ha detto Shapira – per salvare gli arti che, invece, in un ospedale siriano, verrebbero amputati. Anche per quanto riguarda la riabilitazione, che spesso può implicare fino a cinque interventi chirurgici, ci occupiamo di loro fino a quando non sono in grado di farcela da soli».
La cosa che più mi aveva colpito è il modo in cui i pazienti siriani raggiungono gli ospedali israeliani, ovvero tramite il soccorso dell’Esercito israeliano.
«A dire il vero – mi aveva spiegato Shapira – è lo stesso Ministro della Difesa, assieme a quello del Tesoro e quello della Sanità, a coprire la maggior parte delle spese mediche».
Come hai giustamente osservato tu prima, non si tratta di un paradosso?
A questa domanda Shapira non mi ha risposto esplicitamente, ma ha lasciato intendere che è negli interessi del governo mostrare al proprio “nemico”, e in parte anche alla comunità internazionale, il volto umano di Israele.
Tra il personale dell’ospedale di Tzaf di volti umani ne ho visti molti: da chi raccoglie generi di prima necessità a chi si occupa di intrattenere i bambini che arrivano senza genitori e l’unico contatto umano che hanno è quello col personale medico, costituito da arabi, ebrei, drusi e circassi.
All’ospedale di Tzfat sembra davvero di vivere in un altro mondo, dove tutto è possibile. E forse un altro mondo è davvero possibile. Basta semplicemente volerlo.
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