Medio Oriente

Una minoranza fanatica condiziona una nazione: il caos in Israele parla di noi?

27 Marzo 2023

Quello che sta succedendo in queste ore in Israele ci interessa e ci riguarda. Forse più di quel che immaginiamo, e a prescindere dalle sensibilità di ciascuno di noi. Ci riguarda perchè, al di là delle possibili conseguenze geopolitiche e generali, racconta di cose che possono succedere in qualunque democrazia parlamentare quando le posizioni fanatiche di qualcuno assumono nella società e nelle istituzioni la forza che serve per condizionare la vita della maggioranza, o della totalità dei cittadini.
Per cominciare, in breve, partiamo dai fatti. Israele è un paese senza Costituzione. A generare questa anomalia sono molti fattori storici, legati indissolubilmente all’unicum politico e storico che lo stato ebraico rappresenta fin dalla sua fondazione nel 1948. La sua costituzione materiale è fondata sulle leggi fondamentali che il parlamento ha via via approvato. La Corte Suprema, una specie di Corte Costituzionale (se non per il dettaglio, appunto, che la Costituzione non c’è) è un organismo autonomo che ha molto potere e che decide della legittimità o meno delle leggi e delle decisioni prese dalle autorità politiche, a cominciare dalla Knesset, cioè il parlamento in cui siedono 120 persone, elette stabilmente con un sistema elettorale proporzionale. La Corte ha il potere di dichiarare inefficaci queste decisioni o le leggi promulgate. La riforma di cui si discute è impropriamente chiamata “riforma della giustizia”, perchè in realtà è una riforma del processo legislativo e prevede un profondo riassetto degli organi decisionali. La riforma contro la quale protestano sindacati e industriali, intellettuali e attivisti, in numero sempre crescente, prevede infatti che il parlamento, con maggioranza semplice, possa superare le decisioni della Corte. In sostanza, il parlamento sarebbe l’organo supremo di controllo sul proprio stesso operato. Anche quando – come adesso – la maggioranza di governo di destra è retta dai voti dell’estrema destra ultranazionalista e antiaraba. Che è, guarda caso, la parte politica che più tiene a questa riforma.

“È pur sempre il parlamento, cioè l’organo di massima legittimazione democratica”. È vero. Ma ci sono diversi “ma” cruciali. Il primo: in tutti i paesi le leggi approvate dal parlamento sono sempre sottoposte al controllo di legittimità di organismi terzi. Nei paesi che hanno la costituzione, cioè tutti gli altri, sono appunto le Corti Costituzionali. C’è però un seccondo “ma” specifico, che riguarda questo presente d’Israele. Un presente lungo che ha iniziato a costruirsi lungo i decenni, ed oggi è arrivato a maturità. Questa riforma, presentata da Bibi Netanyahu – probabilmente il politico più longevo delle democrazie contemporanee, visto che lo divenne la prima volta a metà anni 90 del secolo scorso, subito dopo l’omicidio di Rabin – è considerata fondamentale e imprescindibile da alcuni partiti di estrema destra. Sono i partiti cosìddetti nazionalreligiosi che, lungo gli anni, sono cresciuti in numero e peso politico. Per semplificare, e senza perderci nei meandri di simboli e nomi, il loro programma politico fondamentale è l’unità territoriale dell’Israele biblico, che comprende tutti i territori della Cisgiordania, e città palestinesi come Hebron e Nablus. Sono territori che in teoria godono di un’autonomia specifica da ormai trent’anni, cioè da quando gli accordi di Oslo firmati da Rabin e Arafat istituivano un controllo parziale dell’Autorità Nazionale Palestinese sulla Cisgiordania e su Gaza. Doveva essere l’embrione del futuro stato palestinese, obiettivo sfumato per malafede e incapacità assortite nell’unico momento in cui era possibile – con Clinton alla Casa Bianca e Ehud Barak premier in Israele. Resta che gli accordi internazionali, cioè il diritto internazionale, prevedono a tutt’oggi l’autonomia amministrativa di queste terre. Che sono abitate peraltro da diversi milioni di palestinesi che, per essere sottomessi completamente e democraticamente all’autorità dello stato d’Israele dovrebbero esserne cittadini, e quindi votare: che, ovviamente, è l’ultima cosa che Israele vuole, perchè smetterebbe immediatamente di essere – appunto – uno stato ebraico.

In questi anni, il peso dei partiti nazional religiosi è costantemente cresciuto. Soprattutto, le loro posizioni si sono radicalizzate, e le posizioni più radicali, ritenute fino a pochi decenni fa inaccettabili, hanno trovato via via legittimazione. Basti dire che il movimento politico che più sostiene la riforma, Potere Ebraico, è considerato il figlio legittimo di un partito che si chiamava Kach, è che è stato sciolto dal premier Rabin nel 1994 per le sue posizioni apertamente razziste e anti-arabe. Quando iniziai a frequentare assiduamente Israele e poi a lavorarci come giornalista, una ventina di anni fa, anche tra chi professava idee conservatrici ed era scettico nei confronti del processo di pace, le posizioni di Kach erano ricordate al passato e come frutto di fanatismi settari pericolosi. Ricordo che solo nelle colonie – gli insediamenti ebraici piantati nel mezzo della Cisgiordania e anche a Gaza, fino a quando Sharon decise nel 2005 di mettere fine almeno a quella follia – si trovava qualcuno disponibile a rimpiangere Kach e le sue idee. Oggi quelle idee stanno al governo e, appunto, spingono per una riforma che, nelle loro intenzioni, dovrebbe garantire al parlamento la sovranità assoluta che serve per avvicinarsi alla realizzazione del loro programma politico. Appunto, fine del regime degli accordi di Oslo, fine di ogni ipotesi di dialogo per la nascita di uno stato palestinese, stato ebraico su tutto il territorio. Con due sole conseguenze possibili, evidentemente, per i palestinesi che abitano in Cisgiordania: o se ne vanno da lì, o restano senza diritti di cittadinanza. Immagino che l’opzione preferita sia comunque la prima.

La storia politica è ovviamente più articolata di così. Mancano a questa ricostruzione tanti dettagli, e non è un dettaglio la radicalizzazione in chiave islamista della società e della politica palestinese dopo la morte di Arafat. Non è un dettaglio nemmeno l’enorme legacy di corruttela familistica che la morte del vecchio Rais ha lasciato al suo popolo. Quel che importa però sottolineare e ricordare riguarda un cambiamento profondo avvenuto nella società israeliana di questi anni. I partiti nazional religiosi, per definizione, difendono direttamente e apertamente i “diritti” di una minoranza. Cioè di quanti decidono, in aperta contraddizione con le leggi internazionali e del tutto indifferenti a giudizio del mondo, di andare a vivere nelle colonie ebraiche, che si trovano in territori dove non dovrebbero essere e dai quali, se mai un giorno dovesse nascere uno stato palestinese, dovrebbero andarsene. “Il diritto internazionale per noi non conta niente”, mi hanno spiegato più volte, e apertamente, diversi coloni. Anzi, a dirla tutta, essendo questo processo di colonizzazione avvenuto un po’ sull’onda del fanatismo di alcuni, ma molto sulla base delle scelte politiche dei governi israeliani, il diritto internazionale è il nemico giurato di questa storia. I governi – anche quelli di sinistra – hanno accettato e assecondato il ricatto della minoranza, chi per ragioni elettorali, chi per convinzione, chi per sfuducia nei confronti della controparte palestinese. Fino a quando la questione è diventata sostanzialmente irreversibile, e le idee più fanatiche, pur direttamente “votate” da una minoranza di cittadini, sono divenute tollerate e tollerabili per molti di più. Così, il paese che è diventato capitale delle start up tecnologiche proprio grazie agli investimenti di Netanyahu, il paese della liberissima Tel Aviv, è anche – e a guardare le istituzioni, soprattutto – il paese in cui una minoranza di ultrareligiosi ultranazionalisti ha un potere di veto e di blocco che non ha eguali in nessuna democrazia occidentale.

Questa storia riguarda Israele, certo, che è un posto unico al mondo per mille ragioni. Qualcuno dirà anche, e con qualche ragione, che il proporzionalismo puro in parlamenti piccoli può produrre questi effetti ricattuosi. Ma i problemi che emergono a Gerusalemme riguardano, in fondo, tutte le democrazie occidentali e le loro – le nostre – crisi. La disponibilità ad accettare minoranze estremiste per ragioni di opportunismo; la scelta sbagliata degli avversari e degli alleati; la sottovalutazioni delle ragioni del diritto universale a favore del privilegio particolare, se serve a mantenere il potere; la lenta e sempre più ampia tolleranza dei discorsi escludenti e intolleranti nel discorso pubblico. Sono questi, tra gli altri, gli elelementi che compongono la storia lunga di questo quadro. In Israele, comunque finirà la vicenda di questa riforma, è probabilmente già tardi. In Europa, fortunatamente no. Il fatto di avere ancora tempo, tuttavia, non è mai stata una buona ragione per perderne altro. Anzi.

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