Medio Oriente
Un kebab e vomito
‘Oggi piove e viaggio verso l’ex-capitale del preteso Stato Islamico..’
Inizia così il racconto di un mio amico che tra le [tante e bellissime] altre cose fa il cooperante in una ONG. Non posso fare il suo nome né quello dell’organizzazione per cui lavora, per motivi evidenti.
Questo articolo è un regalo, per me e per tutti voi.
Trattatelo con la cura che merita.
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Credo che l’immagine di Dresda massicciamente bombardata dall’aviazione statunitense nel 1945 sia, o dovrebbe essere, nell’immaginario collettivo. Avete forse in mente una scena di distruzione più radicale ed oscena? Un città più sventrata e apocalittica? Purtroppo la Storia ha offerto altri esempi, spesso dimenticati dall’esercizio della memoria. Mi accorgo però che non e’ il passato a fare scandalo, ma un oggi qualsiasi di inizio 2018.
Oggi piove e viaggio verso l’ex-capitale del preteso Stato Islamico e Levante (ISIS o ISIL), liberata dalle milizie arabo-curde spalleggiate dagli Stati Uniti nell’autunno scorso. Per sconfiggere il delirio suicida di combattenti per lo più stranieri, i giovani curdi hanno scavato come talpe ogni edificio stanando i cecchini, alcuni dei quali, in ritirata, demolivano ciò che rimaneva della loro sudicia tana.
Appassita ogni bellezza, della città rimane un esoscheletro fratturato. Alcuni profughi che osano ritornare nelle loro case abitano tra i piani sventrati degli edifici solo parzialmente crollati. Nel mio tragitto non ho contato una sola finestra intatta, il vetro in frantumi e’ ritornato sabbia nel deserto siriano.
Mangio un kebab a Raqqa, forse il migliore che abbia mai assaggiato, e intorno a me il vomito della guerra impiastricciato dalla bile della pioggia. Non sai quanto siano profonde le buche divenute pozzanghere e i sei o sette gradi diventano due o tre sulla pelle dei bambini con indosso una felpa leggera nell’unico centro medico del quartiere. Poi qualcuno di loro comincia a tossire e nella sala d’attesa si esegue un coro rauco di voci bianche.
I bambini di Raqqa non hanno diritto a recuperare le strade con un’ingenuita’ negata, ostaggi della paure delle mine. Non e’ solo il numero impressionante di esplosivi nascosti ovunque a fare paura. Alcuni modelli sembrano le pietre finte che si vedono a volte nelle piscine e dispongono di un congegno a infrarossi che conta quante persone le passino dinnanzi. A un numero prestabilito esplode. Cosi la scuola di un villaggio vicino che era stata ripulita dagli sminatori è esplosa quando le lezioni avevano potuto ricominciare. E il terrore ritorna.
Alcuni ostinati recuperano i tondini di ferro del cemento armato dalle macerie e ne fanno delle strutture per nuovi blocchi di cemento. Un compito improbo data la scarsita’ di sabbia, mattoni e ogni altro materiale. Cio’ che colpisce infatti e’ la mancanza di aiuto per la ricostruzione. Nessun bulldozer al lavoro. Le strade sono invase dai palazzi accartocciati e da cumuli di macerie oppure interrotte da camion coricati di lato e usati come barricate durante i giorni della battaglia. Una citta’ orfana.
Di questo giorno surreale e atroce ricordo l’assenza. Di vita, di bellezza e di speranza. A mente fredda, mi chiedo quale generazione potra’ maturare dal letame della guerra. Se davvero l’Europa, custode dei Diritti Umani, vuole assicurare il proprio futuro protetta dagli estremismi dei margini non deve aspettare la politica internazionale. C’e’ bisogno di umanità adesso. L’umanità non e’ altro che l’applicazione del principio kantiano: fare a Raqqa quello che avremmo fatto se fosse stata una città dentro i nostri confini a soffrire quel terremoto di violenza.
Quello che i nostri nonni hanno fatto alla fine della Seconda Guerra Mondiale, non da soli, ma insieme.
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