Medio Oriente

Un digiuno per la pace

di
24 Aprile 2024

Manuela to Fiammetta
Cara Fiammetta, come è andata l’operazione al ginocchio?
Io da quando abbiamo cominciato la nostra corrispondenza sono spesso in contatto con il tuo amico Giovanni Leone, veneziano di adozione come te che, oltre a leggerci, è dal 1° marzo che sta praticando uno sciopero della fame per sentirsi, mente e corpo, vicino a chi soffre, sia israeliani che palestinesi.
Siccome so che sei ancora in fase di ripresa post-operatoria oggi ho scritto a lui, perché mi interessa sempre cercare di capire il punto di vista di chi ci osserva da lontano.
Per cui chiedo a te, Giovanni, dopo quasi sette mesi di guerra che non sembra fermarsi, cosa ne pensate voi? Come la vedete a distanza?
Giovanni to Manuela
Più si prolunga la guerra più la pace sembra irraggiungibile, e con il passare del tempo sembra anche aumentare il rischio di assuefazione, si finisce col fare l’abitudine alla guerra e a considerarla normale e inevitabile, una cosa con cui si deve convivere. Invece non è vero. La pace non è un miraggio o un’illusione, non è filosofia romantica da nostalgici hippies, la pace è un diritto dei popoli. Ed è un dovere delle istituzioni garantirla. Siamo noi cittadini a potere/dovere imporre ai governanti un cambio di rotta con la liberazione di tutti gli ostaggi: Hamas tiene in ostaggio i rapiti del 7 ottobre e i gazawi; il governo israeliano ha in ostaggio i suoi stessi abitanti, che danno voce e corpo al dissenso, ma sono impossibilitati a sfiduciare il governo e a cambiare la classe politica dirigente. Tutti questi ostaggi vanno liberati e la precondizione per farlo è il cessate il fuoco, il cessare di ogni fuoco, di tutti i fuochi. Questa è la prima delle nostre richieste.
Bisogna ascoltare e vedere con gli occhi dell’altro. Sembra impossibile, ma è quanto avvenuto in Sudafrica quando nel 1990 si è fatto l’accordo per la fine dell’apartheid con l’ANC considerato fino ad allora un gruppo terroristico con a capo Nelson Mandela, “terrorista” liberato dopo 27 anni di detenzione. Lo stesso sembrava avvenire con gli accordi di Oslo del 1993 tra Israele e OLP, ma l’esito è stato diverso, l’avvio del processo di pace è stato fatto arenare determinando le premesse a tutto quel che è accaduto poi.
Manuela to Giovanni
Come è cominciato questo digiuno e da quanto tempo è che digiunate per la pace?
Giovanni to Manuela
Siamo un gruppo di cittadini attivi del mondo cattolico, del movimento non violento e della società civile che hanno deciso di digiunare per contrastare il senso d’impotenza e la frustrazione per una spirale di violenza che si allarga pericolosamente ogni giorno di più. L’irresponsabile stallo pluridecennale della sempre viva questione palestinese – che è certamente tra le cause del conflitto – non giustifica la barbara aggressione a civili festanti, così come l’attacco non giustifica il protrarsi del massacro della popolazione civile di Gaza. Per questo abbiamo voluto dire basta e chiedere di cessare i fuochi nella regione. Come? digiunando, patendo sul nostro proprio corpo una piccola privazione, offrendo un gesto di rinuncia individuale per il bene comune. Non volevamo stare alla finestra a guardare, ma neanche lanciarci nell’arena dello scontro dove ciascuno è convinto che le proprie ragioni siano più valide di quelle dell’altro, che i torti subiti siano più gravi di quelli provocati, che i colpi inferti all’altro siano legittimi. In tutto questo vociare abbiamo cominciato a parlare con voce ferma, sottovoce, senza urlare, cercando d’imboccare la via del dialogo con l’aiuto di interlocutori che ci aiutassero a capire e conoscere il punto di vista degli uni e degli altri.
Due di noi, Carlo Giacomini e Bernardino Mason, – obiettori di coscienza e operatori del servizio civile a Venezia -hanno iniziato a digiunare il 14 febbraio all’inizio della Quaresima. Nelle intenzioni il digiuno doveva terminare a Pasqua, ma poi si è protratto per coprire anche il Ramadan e si è concluso il continuativo il 14 aprile, dopo 60 giorni. Ora continua quello a staffetta. Il 1° marzo mi sono aggiunto come terzo digiunante continuativo e andrò avanti almeno fino a fine mese, in modo da abbracciare idealmente i digiuni delle tre religioni monoteiste: quello cristiano di Quaresima, quello islamico del Ramadan e quello ebraico di Ta’anit Bekhorim di Pesach. Poi mi aggiungerò agli altri di noi (siamo in 130 persone) che digiunano a staffetta, chi per un solo giorno e chi regolarmente per uno o più giorni alla settimana. Ciascuno dei digiunanti versa una somma corrispondente alla spesa per il cibo risparmiata al Kibbutz di Neve Shalom-Wāħat as-Salām, villaggio cooperativo di ebrei israeliani e arabi palestinesi, che li destina ad aiuti umanitari alla popolazione di Gaza.
Le nostre richieste sono state fatte proprie con apposite mozioni di comuni veneti come Santorso, dove lunedì 22 è partita una settimana di digiuno di consiglieri comunali e cittadini a sostegno del nostro digiuno e della mozione approvata dal consiglio comunale che riprende quanto da noi chiesto (vedi https://digiunoperlapace.blogspot.com/).
Manuela to Giovanni
Ma voi, con questo digiuno, cosa vorreste ottenere?
Giovanni to Manuela
La nostra richiesta si articola in 4 punti, che sono pre-condizioni preliminari necessarie all’avviamento di una nuova fase per la pace:
–       il cessate di tutti i fuochi,
–       la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani e di prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa senza accusa o processo,
–       l’approvvigionamento di beni di prima necessità a Gaza garantendo la sicurezza dei civili nelle operazioni di consegna,
–       l’intervento di una forza internazionale di protezione delle popolazioni israeliana e palestinese, non bastando l’interposizione a garantire sicurezza.
Per ricostruire gli edifici serviranno risorse, per le macerie della psiche traumatizzata ci vorrà tempo. C’è tanto da fare, ci vorranno intere generazioni per superare lo choc di bambini che subiscono la pressione emotiva senza avere strumenti per elaborare il trauma, mancando loro le parole e la possibilità di formulare pensieri complessi. A loro è stata sottratta la sicurezza, così come agli adolescenti la speranza e agli adulti la fiducia, tre bisogni che abbiamo diritto di vedere soddisfatti. Da qui bisogna partire, dal sacrosanto diritto di vivere la propria vita in pace e a vedere soddisfatti bisogni primari come quelli citati.
Come fare? Cominciamo col riprendere a parlare gli uni agli altri, ad ascoltare, a dialogare, è così che si crea un clima favorevole all’incontro, che è, appunto, un in-contro: per incontrare qualcuno bisogna andare in campo avverso, dall’altra parte, non aspettare che l’altro sconfitto e umiliato sia costretto a venire da noi con il capo cosparso di cenere. Trattare non è sinonimo di sconfitta o di resa. La mediazione – ragionevole e ragionata – è politica alta, quello che si chiede è una pace (ben) negoziata. Il lavoro fatto dai parenti degli ostaggi può essere un importante precedente di politica bottom-up, in cui desideri e aspettative vengono convogliati in un canale diplomatico gestito con il supporto di specialisti competenti ed esperti, avendo fatto parte del corpo diplomatico israeliano.
Quello che manca è la volontà politica di chi ha il potere di decidere, ancora convinto che la guerra possa portarlo alla vittoria. Sono gli stessi governanti che attribuiscono alla guerra la responsabilità per la barbarie a cui assistiamo: ci si dice che “è la guerra baby, non è cosa da anime belle” aggiungendo che “in guerra tutto è possibile”. Vero, tutto è possibile. Ma non tutto è lecito, c’è modo e modo di condurre la guerra e ci sono limiti precisamente definiti dal diritto civile e penale, nazionale e internazionale. Chi decide come procedere non è un soggetto collettivo astratto (gli israeliani, Hamas, le forze armate, ecc.), ma individui, le cui responsabilità personali saranno accertate da avvocati e giudici, giuristi esperti in diritto internazionale e diritti umanitari, che individuano precisamente la fattispecie dei reati. Andranno indagate le fonti e trovati riscontri ad accuse che devono essere precisamente circostanziate. Di contro, le responsabilità politiche sono già evidenti. La guerra è solo effetto, la causa sono gli uomini e i loro giochi di potere. Il diritto e la diplomazia sono argomenti delicati, che lavorano sottotraccia e sortiscono il loro effetto in sordina, lentamente ma inesorabilmente. Noi siamo incompetenti, non sta a noi giudicare, lo faranno i giuristi e infine la storia. Quindi è bene sospendere il giudizio, peraltro risulta impossibile giudicare oggi, è già difficile farsi una opinione libera e obiettiva, condizionati come siamo dalla disinformazione che ci impedisce di distinguere fatti e narrazione viziata, acuendo la contrapposizione.
Manuela to Giovanni
E come state dopo questi 55 giorni di digiuno?
Giovanni to Manuela
Ci sentiamo in pace con la nostra coscienza perché stiamo facendo tutto il possibile, il nostro è come l’urlo di Munch, di assordante silenzio perché inascoltato.
Nonostante il digiuno fosse noto fin dall’antichità come pratica salutare di purificazione del corpo e rasserenamento della mente, la società dei consumi ha finito per bollarla come punitiva e autolesionista, non solo inutile, ma pericolosa e dannosa. Il digiuno riguarda diversi piani, è una forma di protesta civile non violenta, ma è anche una pratica di preghiera e una forma di purificazione fisica e spirituale, che offre a chi lo pratica serenità di giudizio. Non è uno sciopero della fame – che può essere violento nei confronti di sé stessi – è altra cosa, proietta al di là di tempo e spazio, avvicina.
È stata l’introduzione di un fattore di instabilità e anormalità nella nostra normale quotidianità di privilegiati perché distanti dal teatro di guerra. La privazione di un bisogno fisico primario fa sentire su sé stessi un briciolo di quel che posso immaginare sentano quanti in Medioriente soffrono di privazione (della casa, dei propri cari, dei beni di prima necessità, della sicurezza, del rispetto…).
Posso aggiungere com’è per me questa esperienza, come mi sento. Fisicamente bene, sono stupito dall’incredibile resistenza, la vita sa come proteggersi e ha dato all’organismo una sua intelligenza che gli consente di attingere risorse dai tessuti non essenziali, tutelando gli organi interni vitali. Non abbiamo sempre avuto l’eccessiva abbondanza della società dei consumi.
Psicologicamente, invece, l’indebolimento fisico influenza il piano psicologico. Per un verso mi sento più ricettivo e paziente, per altro verso ho poche energie e poco tempo da perdere, quindi nel confronto non cerco chiacchiere, ma vivaio di contenuti. “Il digiuno fa male solo a chi lo fa” ci dicono, “siete dei sognatori, non vedete come vanno le cose? Sono i governi a decidere del nostro destino, incuranti di noi. Perché allora digiunare? Che ci concludete?”. Non intendiamo ‘concludere’ niente, al contrario vorremmo aprire, sollevare, indagare interrogativi, coltivare dubbi, confrontarci per capire come fare la pace, dare un minuscolo contributo al dialogo pur consapevoli che è una goccia nel mare in tempesta.
Spiritualmente, è un’esperienza che mi sta arricchendo. Nonostante non sia stato “in ritiro” e abbia continuato con le consuete attività quotidiane – compreso il lavoro e il far la spesa e cucinare in casa per gli altri – il digiuno mi ha comunque regalato una condizione estranea, uno stato di leggerezza, mi ha disteso, un po’ come accade dopo la meditazione, con l’effetto benefico del rasserenamento. Sono meno aggressivo, anche nel pensiero.
Manuela to Giovanni
E come reagiscono nei vostri confronti palestinesi e israeliani?
Giovanni to Manueala
Paradossalmente, ci siamo trovati sotto il fuoco incrociato dei sostenitori delle ragioni degli israeliani e dei sostenitori dei palestinesi. Sono stato personalmente tacciato di antisemitismo da un lato e di sionismo dall’altro.
La polarizzazione sembra essere lo zeitgeist del nostro tempo. Ci si schiera e si considera chi dissente o esprime perplessità un nemico, controparte: se non sei con me sei contro di me, la terzietà è bandita. Non entrare nel merito delle contese prima di ogni altra cosa (come cerchiamo di fare) non ci impedisce d’indignarci per gli atti disumani che si susseguono a scapito di cittadini inermi, a causa della inadeguatezza di una politica di scontro e contrapposizione, senza possibilità di mediazione. Il nostro non schierarci pregiudizialmente con questa o quella parte in guerra non è scelta ambigua e pilatesca, ma sospensione del giudizio e abbassamento dei toni per cercare di tornare a parlarsi.
Nel logo che utilizziamo figurano diverse bandiere:

–       la bandiera dell’ONU (che rappresenta il dovere della comunità internazionale di farsi parte attiva nel processo di pacificazione, come garante politica e, sul campo, della proteggere delle popolazioni civili);

–       le bandiere di israeliana e palestinese (che rappresentano le popolazioni civili, non governi e governanti);

–       quella della non violenza (per indicare la necessità di ricomporre i conflitti senza ricorso alla guerra).

La nostra intenzione era evidenziare l’urgenza di rilanciare il dialogo e lavorare per costruire prospettive di pacificazione nel rispetto delle legittime aspettative e aspirazioni delle popolazioni a vivere in pace, in sicurezza, nel rispetto dell’altro, isolando coloro che lo impediscono su entrambi i fronti.
Abbiamo bisogno di un orizzonte di riferimento e questo non può che essere l’ONU, nato nel 1945 per promuovere la pace e la sicurezza internazionale, oggi fatto oggetto di accuse infamanti di complicità che mirano a delegittimarlo per assenza di neutralità. Accusa gravissima. Questi fatti vanno accertati per individuare possibili responsabilità ed eventuali responsabili, ma all’ONU va restituita dignità, autorevolezza e credibilità, anche con processi di riforma che definiscano meglio i suoi poteri e migliorino l’efficacia della sua azione che deve avere lo scopo, ricordiamolo, di promuovere la pace e la sicurezza internazionale. Criticare e segnalare possibili anomalie e contraddizioni è sacrosanto senza però mettere in discussione l’istituzione delle Nazioni Unite, che il diritto internazionale deve garantire.
Nonostante tutto, restiamo convinti che il dialogo sia indispensabile e la pace possibile, anche se sarà un processo faticoso e impegnativo in un tempo viziato da contrapposizioni pregiudiziali e opposizioni a prescindere. “Sii il cambiamento che vuoi nel mondo” diceva Gandhiji, e da lì siamo partiti, da noi stessi. Per la Palestina e per Israele offriamo il nostro piccolo segno di pace e l’invito a impegnarsi per FARE la PACE, già, perché la pace non si raggiunge una volta per tutte, ma è un processo lento e lungo, che va man-tenuto, preso per mano e accompagnato con tenacia in un percorso flessibile e agile, di continuo aggiornamento migliorativo.
C’è un detto siciliano che è un sapiente elogio della flessibilità “calati iuncu ca pass’a china” che sta per “piegati giunco che passa la piena” e vuole invitare a non opporsi a una spinta più forte delle proprie forze che finirebbe per spezzarci, si vuole dire in sostanza: accetta le circostanze che sovrastano il tuo volere e asseconda momentaneamente il loro flusso per conservare le forze in attesa di riprendere il controllo e rialzarti. In ciò non c’è rinuncia ma sapiente attesa del momento giusto, introduzione di un tempo di mezzo in cui è necessario aspettare e utile riflettere.

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