Medio Oriente

Tutto ciò che non vi interessa sapere dell’università e la guerra

26 Aprile 2024

C’è un paradosso, tra gli altri che abbondano nella giostra di talk-show tra politici e giornalisti alle prese con la crisi di Gaza. Da un lato i grandi della terra invocano la tregua e ammoniscono Netanyahu a non fare vittime civili. Dall’altro lato gli studenti che scendono in piazza per lo stesso motivo vengono manganellati. E un’università che si interroga se sia il caso di proseguire gli accordi di ricerca con un paese in guerra diventa un covo di carbonari e insurrezionalisti. E nessuno, né i politici che l’università non l’hanno mai bazzicata, né gli opinionisti (anche accademici) che dell’università hanno un lontano ricordo hanno la minima idea di cosa si stia parlando.

In università si fanno due attività: ricerca e didattica. Poi ce n’è una terza e si chiama terza missione, che è quello che sto facendo in questo momento: dialogare con la società e la politica. L’università è un ambiente libero e democratico, con tutti i limiti delle libertà e della democrazia: libertà di varcare soglie che si vorrebbero non veder varcare (rivedetevi Oppenheimer), e dittatura della maggioranza (gli innovatori non hanno vita facile). L’università è globale: gli studenti sono studenti in tutte le parti del mondo, e i professori si occupano più o meno delle stesse cose in tutte le parti del mondo. Ricordo una visita a un convegno a San Pietroburgo all’inizio di questo secolo (in una caserma, giusto per ricordare i temi di questi giorni) in cui gli scienziati russi usavano gli stessi concetti di noi in occidente, ma con nomi diversi, retaggio della segregazione della guerra fredda. Come se ci fosse stata una mano invisibile che aveva guidato la ricerca in tutto il mondo.

Essendo globale, l’università ripudia la guerra (che non sia accademica, ovviamente). Per questo i protagonisti dell’università, gli studenti, scendono in piazza simultaneamente in tutto il mondo. E alcuni professori, troppo datati per scendere in piazza, li sostengono. Da qui i due fronti: le manifestazioni di piazza e le decisioni dei senati accademici. Ovviamente le decisioni non sono univoche e anche nel movimento degli studenti ci potrebbero essere posizioni difformi, che però sono oscurate dai colpi di manganello. Per essere chiari, io sono convinto che nel movimento di protesta non ci siano antisemiti, e che non ci siano neppure frange che inneggiano alla Jihad, e che il movimento li espellerebbe se ci fossero. Ma anche se ci fossero, quando qualcuno ti aggredisce, le differenze non si vedono più.

Nei senati accademici, dove il manganello non è ancora arrivato, sono state assunte posizioni diverse riguardo ai rapporti con le università israeliane, con diverse argomentazioni, ma nel dibattito pubblico non si è capito nulla. L’unico mantra è stato: non lasciate soli i ricercatori israeliani. Il fatto è che pochi sanno come funziona l’università, e chi lo sa lo tace. E la realtà è che nessun ricercatore israeliano sarà lasciato solo. Il tema di cui si parla è un altro, ed è giunto il momento di chiarirlo in concreto.

Io sono un ricercatore universitario, e ho dei fondi di ricerca. Alcuni dei fondi di ricerca sono a mio nome, e sono libero di utilizzarli per gli sviluppi dei miei piani di ricerca personali, in piena libertà. Quindi, se i miei piani di ricerca mi portano e collaborare con un ricercatore israeliano, mi faccio un biglietto per Tel Aviv, prenoto un albergo o Airbnb e vado. Stessa cosa con la Russia. Penso che un mio amico russo mi possa aiutare a proposito di un modello che ho in mente. A settembre ci troveremo e non parleremo certo di Putin, parleremo dei nostri modelli. Quindi la comunità accademica e la rete della ricerca sono e resteranno globali, e il motivo è che la ricerca è libera, e la libertà unisce e divide, esclusivamente nella ricerca: visiterò un paese perché lì c’è gente che segue la mia stessa linea di ricerca, e non visiterò paesi dove ritengo che le linee di ricerca siano vecchie, o non portino a niente.

Quello di cui si parla, quindi, è altro. Si chiama politica accademica, e la domanda fondamentale è: deve un’università avere accordi di ricerca strutturati con paesi che sono in guerra?  Questa è la domanda che divide i senati accademici di Italia. E la risposta ha molte sfaccettature, alcune delle quali vengono spesso annegate nella discussione su questioni di principio e prese di posizione manichee.

Cominciamo da un punto che molti ignorano, forse perché troppo meschino per essere espresso in un talk-show. Si tratta della sicurezza dei ricercatori. Sollecitato da un talk-show, sono andato a vedere quali università ci sono a Gaza, e c’è un politecnico. Che ne direste di un accordo di ricerca con il politecnico di Gaza? Chi va a presentare il progetto a Gaza? Come ci si arriva? Dove si dorme? Si fa ricerca on-line? Chi vi dice che la ricerca si può fare on-line non sa cosa sia la ricerca. Il momento centrale della ricerca è quando si pranza insieme o ci si siede in un bar: la ricerca nasce lì, la seduta alla lavagna viene dopo. E sebbene non si debba dire, la sicurezza dei ricercatori è un tema di cui ci siamo dimenticati, nonostante quello che è successo a Regeni.

Se l’esempio dell’accordo con l’università di Gaza è fanta-accademia, il tema del rapporto con la guerra emerge in casi più concreti. Abbiamo detto che l’università fa didattica: io nel 2018 sono stato inviato a Mosca per valutare una collaborazione tra corsi di laurea, che avrebbe dovuto precedere una visita tra autorità accademiche di più alto livello (che poi non c’è stata). Quando nel 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina ho saputo da chi mi ha succeduto alla guida del corso di laurea che da Mosca veniva ancora l’invito ad andare avanti e cominciare a inviare studenti. Non mi sono stupito che la collaborazione fosse congelata e il primo commento che mi è venuto in mente è stato: ci manca solo che mandi i miei studenti in un paese in guerra.

Messe da parte le questioni di sicurezza veniamo alla presa di posizione contro la guerra e a favore di una o dell’altra fazione della guerra. L’università non è solo contro la guerra, ma è più contro quelli che la fanno che con quelli che la subiscono. E non vuole collaborare con quelli che la fanno. Si tratta di un messaggio da un organo politico di un’accademia (non tutte) agli organi politici dell’accademia del paese che fa la guerra. I pronunciamenti degli studenti, che sono responsabili come i docenti delle decisioni prese nell’università (abbiamo le commissioni “paritetiche”) stimolano gli organi a mandare questi segnali, nell’auspicio che professori e studenti di quel paese (in questo caso Israele) rispondano.

Purtroppo notiamo che dalla accademia israeliana non è venuta nessuna risposta a questo messaggio, né nessun segnale di dissociazione dalla politica del governo. Parlo dell’accademia israeliana nel suo complesso: non ho visto università israeliane occupate o proteste universitarie, mentre abbiamo visto, già negli anni prima del 7 ottobre, una rivolta massiccia della società civile. Se Israele è una democrazia compiuta e trasparente, questo ci porta a ritenere che il problema non sia Netanyahu, e che la sua idea di risolvere i problemi con la guerra, e con questo tipo di guerra, sia condivisa anche nell’università.

La mancanza di una reazione, o almeno di una reazione che arrivi alle nostre orecchie, da parte delle università israeliane stride con l’esempio opposto di quello che accade nelle università del nemico storico di Israele: l’Iran. Ogni giorno studentesse e studenti rischiano la vita per dissociarsi dal potere di quello stato: la polizia morale. Gli armati in motocicletta della polizia morale sono la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho visto le immagini aberranti del 7 ottobre. Quelli che scannavano gli israeliani, in larga misura israeliani che vivevano in contatto con Gaza, avevano la stessa faccia di quelli che attaccano e impiccano gli studenti a Teheran. Quando la lotta delle donne e degli studenti iraniani era all’ordine del giorno, le nostre università si sono schierate con loro, non certo con gli integralisti islamici.

Può quindi piacere o no, ma l’università è contro la guerra e contro l’integralismo, e fanno bene gli studenti, che ne condividono la responsabilità, a pungolarla. E c’è speranza anche per le università israeliane. L’intervento preoccupato del governo di quel paese di fronte alle dimostrazioni nelle università americane, di ben altro peso rispetto alle nostre, fa intravedere il timore che alla fine la scintilla si diffonda anche lì.

Da noi invece le proteste studentesche hanno fornito l’occasione a qualche vecchio accademico per invocare l’accentramento e il ripensamento dell’autonomia delle università. Se i senati accademici prendono le loro decisioni e sono sotto la pressione degli studenti, facciamo decidere al ministero.  E qui c’è l’ultima mistificazione: tra autonomia della ricerca e autonomia della gestione dei fondi. A parte che l’autonomia dei fondi la mia generazione l’ha trovata già nell’università , introdotta proprio dalla generazione dei Galli Della Loggia, l’autonomia della ricerca anche i Galli Della Loggia l’hanno trovata dai tempi dei clerici vagantes. Si stipulino pure contratti di ricerca dal parte del ministero, se questa è l’antifona. Noi continueremo a  fare la ricerca che ci interessa e a insegnarla (la prerogativa dell’insegnamento universitario è fare la disciplina che si insegna). E ai contratti di ricerca del ministero ci penseranno i funzionari del ministero.

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