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Su Israele e Palestina è ora che si disarmino anche le parole
Il Corriere della Sera, all’indomani del massacro del 14 maggio, ha aperto così: «La rabbia di Hamas contro Usa e Israele. A Gaza 55 morti». Si tratta di una apertura piuttosto ambigua. Voluto o meno che sia l’effetto, l’ambiguità quel titolo è in grado persino di indurre una percezione dei fatti capovolta. Insomma, quella prima pagina sembra quasi avverare una delle tesi esposte da Umberto Eco in Numero Zero: «I giornali non sono fatti per diffondere ma per coprire le notizie». Tuttavia, non è l’apertura della prima pagina la cosa che colpisce di più, poiché questa è invece nello sfoglio interno del giornale, in un pezzo nel quale vengono criticate – per così dire – anche le scelte del governo d’Israele.
Il fatto è che il Corriere della Sera propone queste sue critiche soltanto dopo una lunga e clamorosa premessa la quale, se non ci si fosse oramai assuefatti a un certo abito culturale nel racconto delle cose del Medioriente, sembrerebbe del tutto fuori luogo, poiché superflua in quanto ovvia. Eccone una parte: «S’intende che proprio perché siamo amici e sostenitori dello Stato di Israele non accettiamo la falsa equivalenza tra critiche al suo governo e sospetti di odioso antisemitismo. Ed è per questo, perché la libertà delle opinioni che vige all’interno di Israele deve essere regola riconosciuta nel mondo intero, che non abbiamo alcun timore di contraddirci criticando quanto è accaduto ieri al confine tra Israele e Gaza (per l’ennesima volta), oppure a Gerusalemme dove è stata inaugurata la nuova sede provvisoria dell’ambasciata Usa».
Leggere una cosa del genere addirittura sul Corriere della Sera produce uno sconcerto difficile da sciogliere e fa davvero una grandissima impressione. C’è da chiedersi – ma questa evidentemente rischia di essere una domanda retorica – perché il quotidiano abbia sentito la necessità di rivendicare in modo così plateale una cosa tanto ovvia come il diritto di criticare le scelte di un governo. Anzi, per dirla meglio: c’è da chiedersi il perché di quella premessa prima di scrivere l’ovvio, e l’ovvio è appunto che si può criticare il governo israeliano senza per questo essere nemici di Israele.
Nei paesi occidentali democratici e liberali, e dunque al netto dei periodi nei quali il potere è stato detenuto da regimi autoritari, è normale il poter discutere delle scelte di un governo senza per questo doversi giustificare o dover rivendicare ogni volta quel diritto in premessa, come se su questo diritto potessero esserci ancora dubbi. D’altra parte, l’operato di un governo è una attività politica e la politica è sempre sottoposta in quanto tale al legittimo giudizio di cittadini, analisti, giornalisti, politici; di chiunque, insomma. Anzi, che sia data questa possibilità è il cuore stesso della democrazia, poiché è sul diritto di critica e sulla libertà di pensiero che si fonda la libertà di scelta e, dunque, la stessa democrazia. Ed è giusto così.
Sembra giusto a maggior ragione in circostanze così drammatiche come quelle che viviamo di questi tempi, anche soltanto considerando le decine di morti e i circa 2000 feriti che si son potuti contare tra la mattina e la sera del 14 maggio a Gaza: e si tratta di una circostanza tanto eclatante che, comunque la si veda, qualche domanda dovrà pur farla sbocciare in un essere dotato d’umanità.
E, però, nonostante tutto questo, al Corriere della Sera hanno deciso di spendere addirittura una colonna e mezza, sulle quattro a disposizione, per una sorta di excusatio non petita prima di avventurarsi in una normale critica al governo israeliano – tanto normale che in quelle stesse ore attraversava il mondo occidentale – e lo hanno fatto pur essendo evidente a tutti che a nessuno potrebbe mai venire in mente sul serio di considerare quel giornale un nemico di Israele.
Il fatto è che, dietro certi titoli che galleggiano su un mare di ambiguità e in tante parole dissipate per affermare ciò che dovrebbe essere ovvio, è possibile rintracciare un racconto non raccontato in modo esplicito, ma soltanto alluso, del perché sia diventato così maledettamente difficile parlare, quando oggetto della discussione è il Medioriente. E il fatto che persino il principale quotidiano italiano senta il bisogno di ribadire in premessa, come a rivendicarlo, il proprio diritto alla critica del governo di Israele e, insomma, arrivi quasi a dare la sensazione di dover mettere le mani avanti, la dice lunga sullo stato di quella stessa discussione.
Allora, ecco che rendere le allusioni palesi, provare a manovrare per il disarmo anche delle parole, avere la forza di non farsi costringere in retroguardia persino in un normale articolo di giornale, non temere l’ingiustificata violenza delle parole di chi – da ogni parte – ha fatto della violenza il proprio strumento dialettico, riportare normalità nella discussione e anche nel resoconto giornalistico, ecco insomma che tutto ciò sarebbe già un bel passo avanti per provare a vivere in pace o, almeno, per non darla vinta a chi alla pace non sembra sinceramente interessato poiché è soprattutto nel conflitto e nell’esistenza di un nemico che oramai sembra trovare le ragioni della propria stessa esistenza.
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