Medio Oriente
Spiegare la Shoah alle nuove generazioni…
Fiammetta to Manuela
Domani in Israele si celebra Yom ha Shoah, ovvero il giorno in memoria dell’Olocausto, che coincide con la data della rivolta degli ebrei confinati nel Ghetto di Varsavia.
Per questo i programmi televisivi israeliani, persino quelli per bambini cominciano a introdurre il concetto della Shoah attraverso il racconto dei nonni sopravvissuti.
Così, mentre io sto preparando la colazione, ed Enrico sta guardando Shakshuka, a un certo punto viene da me e mi chiede che cosa è la Shoha.
È da otto anni che cerchiamo di proteggerlo e di non raccontargli i macabri dettagli dei campi di concentramento.
Per ora ce la siamo sempre cavati con la storia che si tratta di un episodio della Seconda Guerra Mondiale durante il quale sono morti molti ebrei. Senza entrare troppo nei dettagli, né sul come, né sul dove, né sui numeri.
Anche nel programma televisivo non sono entrati nei dettagli, mentre la nonna di una dei protagonisti racconta di quando, da piccola, era stata costretta a lasciare la propria casa, a Varsavia, per il Ghetto, e di come erano stati tutti costretti ad andare a vivere assieme, in piccole case, studiando sui gradini delle abitazioni, invece che a scuola, e indossando la stella gialla.
“Ma perché dovevano mettere la stella gialla per entrare al Ghetto? Io quando vado a giocare a calcio al Ghetto di Venezia mi metto la maglia di Maradona…”
“Amore, tu lo sai perché il Ghetto di Venezia si chiama così, e perché una volta c’erano tanti ghetti in tutta Europa?”
“Perché così i bambini ebrei di tutto il mondo si potevano trovare lì per giocare a calcio e parlare ebraico, come faccio io quando vado a Venezia a trovare la nonna…”
E solo in quel momento mi sono resa conto di come per Enrico il Ghetto di Venezia sia un luogo di gioia, e non di dolore.
“Questa è la funzione dei ghetti oggi. Ma quando sono stati costruiti era per impedire agli ebrei di potersi mescolarsi con il resto della popolazione…”
“Ma perché? Una volta gli ebrei italiani non sapevano l’italiano?”
“Ma certo che lo sapevano. Erano gli italiani che non volevano mischiarsi con gli ebrei. E la stessa cosa è successa in Polonia e in tante altre città europee…”
E mentre glie lo spiego, attraverso un flashback, nella serie televisiva la nonna racconta di come si è salvata, mentre giocavano a nascondino, essendosi nascosta sotto l’unico letto che i soldati tedeschi non hanno perlustrato.
La scena si conclude con il rumore di una sparatoria, senza che si veda nulla, ma con la bambina che dopo qualche minuto esce da sotto il letto e trova la casa vuota.
“Mamma, dove sono finiti tutti gli altri bambini?”
E in quel momento mi rendo conto che non gli posso più mentire.
“Sono stati uccisi dai soldati tedeschi…”
“Ma perché?”
“Perché erano ebrei…”
“E allora? Anche io sono ebreo. Vuol dire che quest’estate quando andrò a giocare al Ghetto di Venezia potrebbero uccidermi?”
“Ma no, amore, è successo tanti anni fa…”
“Quanti?”
“Più o meno ottanta…”
“Ma non sono tanti. Nonno ha ottantasette anni. Vuol dire che quando lui aveva la mia età lo avrebbero potuto uccidere…”
“No tesoro, stai tranquillo. A lui non poteva succedere nulla, perché non è ebreo…”
“Ma invece agli altri bambini? Quelli ebrei?”
Panico. Non so più cosa rispondergli. E alla fine gli faccio una domanda io.
“Sai perché dopo la Seconda Guerra Mondiale tanti ebrei sono tornati a vivere in Terra di Israele?”
“No. Perché?”
“Per impedire che altri bambini ebrei dovessero morire nel ghetto di Varsavia o negli altri ghetti d’Europa. Per questo era così importante fondare uno Stato per gli ebrei. E per questo si celebra Yom ha Shoah. Domani quando sarai a scuola, alle 11.00 del mattino, suonerà una sirena che sembra come quella che ci avvisa quando stanno arrivando le bombe da Gaza. Invece, domani, non dovrai scappare in un bunker, ma alzarti in piedi e rimanere in silenzio, per un minuto, per ricordare tutti i bambini che non sono riusciti a salvarsi…”
“E che non sono potuti tornare a vivere in Israele…”
“Esatto”.
Manuela cara,
alla fine, oggi, me la sono cavata con la storia del Ghetto.
Ma un giorno, non troppo lontano, Enrico mi chiederà dei campi di concentramento, e io non saprò come spiegarglielo…
Manuela to Fiammetta
Prima ancora che ai nostri figli, e’ difficile raccontare la Shoah a noi stessi. I miei genitori , che l’hanno vissuta, ma si sono fortunatamente salvati, non me ne avevano parlato più di tanto. Era stato difficile anche per loro.
Quando poi non ci sono stati più, grazie a un articolo che avevo scritto per Vanity Fair raccontando quel poco che sapevo – il pezzo aveva avuto molto successo e risvegliato in me molta curiosità – ho iniziato a studiare e a raccogliere diari e storie che poi sono diventati il libro : “Un mondo senza noi” .
Nel corso della scrittuta di quel libro ho rivissuto con i miei cugini – e parenti vicini e lontani – quei sette anni iniziati nel 1938, con le leggi razziali che consideravano gli ebrei appartenenti a un’altra razza, tanto da discriminarli e portar via loro ogni diritto civile, fino a farli diventare praticamente, trasparenti .
Nel 1943, da trasparenti, diventarono in pericolo di vita vero e proprio, e alcuni sono finiti nelle camere a gas.
Per fortuna arrivò la Liberazione, alla quale partecipò anche la Brigata ebraica.
E se, invece, avessero vinto in nazisti?
Questa è la domanda che mi sono chiesta innumerevoli volte.
Cosa hanno provato loro che hanno vissuto quei momenti?
Se vuoi ti presto la loro storia in caso tu non ne abbia una tua personale da raccontare ad Enrico.
Da quelle storie ho capito come per mio padre e mia madre Israele era un sogno che diventava realta’, nn luogo dove finalmente ci sarebbe stato posto per tutti gli ebrei che non avevano più dove tornare: in Polonia, Germania, Ungheria.
Nessuno aspettava il ritorno dei pochi superstiti con la fanfara, diceva mio papà.
Eppure, con la fondazione dello Stato di Israele, iniziavano nuovi problemi.
Mi sto preparando in questi giorni a un intervento per un premio letterario e sto studiando la storia della fuga degli ebrei dall’Egitto dopo la salita di Nasser al potere. Lo racconta con grande delicatezza la vincitrice del premio Denise Pardo nel suo libro “La casa sul Nilo”.
Oltre 850.000 ebrei che vivevano nel mondo arabo hanno dovuto lasciare le loro vite e le loro case dove erano nati e vissuti, senza le loro proprietà, diventando rifugiati in un processo iniziato negli anni ’30, e intensificatosi dalla direzione della Lega Araba in prossimità della fondazione dello Stato di Israele e sepre di più dopo il 1956. con la Guerra di Suez, e nel 1967, dopo la Guerra dei Sei giorni.
Una mia amica tunisina mi racconta spesso della sua nostalgia per il luogo dove era nata e vissuta e del suo forzato abbandono di un luogo a cui non potra’ piu fare ritorno.
Ma sperava anche lei di non dover pensarci più.
E invece, aldi à della politica miope del nostro premier Netanyahu e del suo governo corrotto contro il quale stiamo in moltissimi, qui in Israele, a dimostrare da ormai un anno e mezzo, poprio in questi giorno riscopriamo anche una nuova – o forse la antica? – dimostrazione di antisemitismo.
Racconta la giornalista Marta Ottaviani, asssieme all’esperta Livia Ponzo in “Fake news”, l’evidente tentativo (ben riuscito) di sobillare le comunità studentesche occidentali nell’odio contro gli ebrei e Israele, fino alle dimostrazioni in Italia del 25 aprile e l’agguato alla Brigata ebraica, organizzato e messo in rete attraverso un sofisticato apparato mediatico di un videoblogder di nome “local team”, sempre presente al momento giusto per filmare violenza, e poi metterla in rete. Stesso meccanismo negli Stati Uniti. Stesso “local team”. Stesse immagini di violenza moltiplicate all’infinito.
Subito dopo il 7 ottobre già erano state disegnate sulle strade di Parigi le stelle di Davide. Si è poi scoperto che erano stati gruppi pro-russi.
Dopo tutto sia negli Stati Uniti che in Europa siamo prossimi alle elezioni.
E neanch’io mi sarei mai aspettata di arrivare a parlare delle stelle di Davide a Parigi per rispondere alla domanda di Enrico.
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