Medio Oriente

L’Europa che accoglie i profughi si prepara alla guerra

10 Settembre 2015

L’Unione Europea, dopo più di 200mila morti e circa 10 milioni di persone in fuga all’estero o sfollati interni, si accorge della guerra in Siria. Dal 2011 a oggi, ogni maledetto giorno, milioni di vite hanno abbandonato tutto quello che avevano per fuggire. E lo hanno fatto in tutte le direzioni possibili: Libano, Turchia, Giordania, Egitto, Libia. Centinaia di bambini, come il piccolo Aylan, hanno conosciuto solo la guerra e la fuga.

Anche attraverso i Balcani. La Bulgaria, ad esempio, il suo ‘muro’ lo ha approvato a novembre 2013. Non ieri. Il report di Amnesty International, pubblicato a luglio 2015, ricostruisce tutto quello che è avvenuto ai profughi siriani (e non solo) lungo quella che viene chiamata ‘balkan route’ da anni. Da quella strada, per altro, non passano solo siriani, ma anche afghani e altri.

Stesso discorso per l’Europa. Al mezzanino della stazione di Milano, come in Sicilia, oppure lungo le strade di Istanbul, fino ai traghetti dalla Grecia, passando per i paesi della ex-Jugoslavia, nei viali di Budapest o nei centri per rifugiati tedeschi,  i siriani ci sono da quattro anni e mezzo.

Solo che ora, da quest’estate, li fermano. Io sto con la sposa, piaccia o meno il prodotto finale, è in questo senso un elemento di memoria e denuncia molto indicativo. Le persone fuggivano dalla guerra in Siria, ma nessuno li fermava. O ne fermavano una minima parte.

Basta prendere un anno a caso dall’inizio del conflitto, nel 2011. Secondo l’Unhcr (l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati) più di 2 milioni e 300mila rifugiati siriani vennero registrati in un anno, il 52 percento dei quali minori di età, a cui si aggiungevano (all’epoca)  almeno 4 milioni e 250 mila persone sfollate nel paese.

In tutto, nel 2013, erano più di 6 milioni e mezzo di uomini, donne e bambini in fuga, quasi un terzo dell’intera popolazione siriana. Di questi, però, solo 55mila riuscirono ad arrivare nell’Unione europea e a chiedere asilo, ma gli stati membri hanno dato disponibilità ad accoglierne appena 12mila. Nessun cordone di polizia a fermarli in Macedonia o Ungheria. Passavano.

Perché è tutta là la differenza. I cordoni di agenti, le botte, i lacrimogeni, le cariche sono iniziate da pochi mesi. Perché? Come mai, dopo la dichiarazione della cancelliera Merkel, tutto di colpo si fa umano?
Il prossimo vertice punta addirittura alle multe per gli stati che non accolgono profughi, Francia (gli stessi che sospendono Schengen a piacimento a Ventimiglia) e Gran Bretagna (dove il premier Cameron tuonava che non avrebbe mai accettato le quote) e tanti altri ancora, d’improvviso, aprono ai profughi.

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E anche i media mainstream reagiscono alle solleticazioni politiche, imprimendo una forte connotazione ‘accogliente’ dove per anni è stato presentato un quadro falsamente emergenziale, di colpevole indifferenza, di racconto ‘della pancia’ del Paese. Il vento sta cambiando, in Ue come in Medio Oriente.
Solo che sembra avere tutte le caratteristiche dell’ennesimo vento di guerra.

Ci sono notizie che arrivano anche da quelle latitudini che meritano attenzione. Il regime di Damasco – secondo fonti dell’opposizione riprese da al Jazeera – avrebbe perso, dopo aspri combattimenti, il controllo del campo petrolifero di al-Jazal, l’ultimo che gestiva e che gli garantiva delle entrate extra oltre i soldi della Russia e dell’Iran. Qualsiasi tattico militare, guardando la mappa ripresa qui sotto, coglierebbe una realtà indiscutibile: Assad e il suo regime sono finiti.

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Resta in vita solo grazie all’appoggio sul campo dei miliziani iraniani, libanesi (Hezbollah) e russi (come consulenti è certo, come operativi sul terreno lo è meno). I grandi media hanno finalmente anche reso noto quello che giornalisti, attivisti e funzionari internazionali dicono e denunciano da anni: l’Isis è un orrore, ma in Siria uccide un decimo delle persone che muoiono sotto le bombe del regime.

Cosa fare, allora? Basta leggere le dichiarazioni del presidente francese Hollande per capire che si pensa a intensificare l’intervento armato. Quello che non è chiaro è come farla finita con Assad e come affrontare l’Isis.

Il drammatico bilancio degli interventi internazionali in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 sono sotto gli occhi di tutti. Isis stesso è un problema che nasce tra le fila degli ex dirigenti del regime di Saddam. L’intervento a supporto dell’insurrezione in Libia, ha lasciato dietro di sé una devastante guerra per bande.

In tutti e tre i casi citati, non si è mai lavorato a un reale progetto post-bellico e il rischio che si corre adesso è che nella corsa alla guerra, ancora una volta, si perda di vista l’obiettivo: rendere quella regione del mondo un posto sicuro. Restando lucidi, per non farsi travolgere dalla necessità di accorpare coalizioni in fretta e furia, magari pagando cambiali a paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita che profittano del momento per regolare i loro conti, rispettivamente con i curdi e con gli insorti filo iraniani in Yemen.

La chiave è mettere Assad fuori dalla storia, arrivando a un accordo con i suoi alleati. Senza Iran e Hezbollah, Damasco è finita. L’accordo sul nucleare tra Washington e Teheran potrebbe essere davvero il punto di svolta di questa crisi. Prima di concludere, deve essere preteso che l’Iran giochi un ruolo ‘trasparente’ nel conflitto siriano, per lavorare a una vera exit strategy che deve iniziare – ad esempio – dal fermare l’aviazione del regime e le sue criminali barrel bomb.

Sostenendo un nuovo governo a Damasco, nato dalla condivisione di tutte le anime dell’insurrezione e della società civile siriana, e non pretendendo di sceglierlo a Washington o a Bruxelles, lavorando allo stesso tempo sulla situazione in Iraq, con l’elemento curdo che – piaccia o no al presidente turco Erdogan – ha preso un ruolo importante, affrontare tutti assieme le colonne di Isis.

Che sono molto meno imbattibili di quello che si vuole raccontare. Perché iniziare subito un’operazione razionale di intervento sulle fonti di finanziamento del gruppo darebbe risultati immediati. Almeno quanto aprire un tavolo di confronto ad alto livello e transnazionale con le figure più influenti della galassia sunnita in Siria e in Iraq per uscire dalla trappola del risentimento settario. Perché bombardare e basta aumenterà le vittime civili. E questo, come dimostrano gli ultimi quindici anni, finisce solo per rafforzare i radicali.

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