Medio Oriente
Sei mesi dopo, siamo tornati al 6 ottobre
184 giorni. Sono trascorsi sei mesi da quel Sabato 7 ottobre che avrebbe cambiato, per sempre, la storia non solo di Israele e del Medio Oriente, ma anche quegli equilibri – su scala globale – che, giorno dopo giorno, non fanno che mostrare, sempre di più, la propria instabilità.
Al dramma di una guerra di cui non si vede la fine, un esercito che fatica ad andare avanti non avendo un obiettivo ben preciso e una crisi umanitaria a Gaza che – oltre alla questione morale – pone Israele in una sempre più delicata posizione persino agli occhi dei suoi più grandi alleati, si aggiunge il dilemma di un Paese sempre più affaticato, che comincia anche a vacillare rispetto a quell’unità che si era ritrovata, inevitabilmente, quel Sabato Nero, di fronte al massacro commesso da Hamas.
Beichad nenazeach: “uniti vinceremo” era lo slogan che aveva tenuto insieme le parti più agli antipodi della società israeliana, per quasi sei mesi.
Già nell’ultimo mese, tuttavia, sono tornate a riempirsi le strade di Kaplan Street, a Tel Aviv, dove per 39 sabati consecutivi – fino a quel fatidico sabato 7 ottobre – si era stipato il movimento anti-riforma giudiziaria, volto a salvaguardare la democrazia di un Paese guidato da un governo di destra estrema e tutt’altro che di larghe vedute, persino nella questione della sicurezza nazionale, compromessa per garantire quella dei coloni. Anche per questo, già allora, i riservisti si erano fortemente uniti al movimento per la difesa della democrazia.
Oggi, assieme a loro, ci sono anche le famiglie di quei 134 ostaggi ancora prigionieri a Gaza e tutti coloro che, non vedendo la fine di un conflitto irrisolvibile, vogliono eliminare chi, in parte, ne è anche stato la causa. Quel premier scellerato che, già nel 2019, aveva trascinato Israele alle urne – per ben 5 volte consecutive – a causa di una legislazione che si era rifiutato di implementare. Una legge cruciale per la stragrande maggioranza della società israeliana – sia a destra che a sinistra – ovvero quella relativa all’obbligo, per gli ultraortodossi, di prestare servizio militare, come previsto per tutto il resto del Paese, donne incluse.
Se, come richiesto la scorsa settimana dalla Corte Suprema, questa legge dovesse, finalmente, passare all’esecutivo, questo porterebbe inevitabilmente al crollo del governo e quindi ad un ritorno alle urne. E per questo Benny Gantz – che, se le elezioni si tenessero oggi, stando ai sondaggi, risulterebbe vincitore incontrastato – ha già sfidato il premier Benjamin Netanyahu proponendo di tornare a votare a settembre che, visto da qua, sembra ancora lontanissimo. Sono passati sei mesi da quel Sabato Nero, sei mesi estenuanti per tutto Israele che ora si sente essere tornato al 6 ottobre. O, peggio ancora, al 2019.
L’esenzione dal servizio militare e, più in generale, i privilegi che hanno sempre permesso agli ultraortodossi – e a Netanyahu – di mantenere il potere non solo sul governo ma anche sulla vita (e sulla morte) della società laica, sono sempre stati una spada di Damocle non solo per la carriera politica (e l’incolumità parlamentare) del premier ma, soprattutto, per la stessa società israeliana. Che ora, a sei mesi di distanza da quello che è stato il più grande lutto – ancora in corso – nella storia di Israele, si trova a fare i conti con il proprio futuro. Se il 2023 è stato l’anno un cui lo Stato ebraico ha rischiato di cessare di esistere, forse il 2024 potrebbe essere quello di una rinascita, necessaria per garantirne la sua stessa esistenza.
Beichad nenazeach: “uniti vinceremo”. Non si tratta solo di questa guerra contro Hamas ma, prima ancora, di un conflitto interno a Israele. Solo quando anche la società ultraortodossa sarà disposta a sacrificarsi per un Paese da cui tanto riceve ma ben poco ha da offrire e, assieme a quella laica, sceglieranno il proprio leader non per portare avanti i propri interessi particolari, ma quelli nazionali, allora Israele potrà tornare ad essere quel modello, esemplare, di democrazia del Medioriente, in grado di portare avanti quegli Accordi di Abramo, necessari, per quel processo di pace che non può più essere rimandato.
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