Medio Oriente
Riservisti d’Israele: i migliori guerrieri sono i pacifisti?
Concludo perplesso il romanzo “Fuoco amico” di Abraham Yehoshua, tra i più grandi letterati israeliani viventi, leggendone tutto d’un fiato le ultime battute. Non è l’amore coniugale tra i due protagonisti, Amotz e Daniela, a sconvolgermi. L’affidamento infantile di lei e un certo paternalismo protettivo di lui ben si attagliano ai personaggi. Né un simile merito posso riconoscerlo al carattere spigoloso e sfuggente di Yirmiyahu, vedovo della sorella di Daniela, rinchiuso nel proprio esilio volontario in Tanzania. A colpirmi sono stati due personaggi che fanno da sfondo a questa storia: Eyal e Moran. Il primo, figlio di Yirmiyahu, ucciso erroneamente da un commilitone durante un’operazione militare nei territori occupati. Un fuoco amico, per l’appunto, che non ha smesso di bruciare nel cuore e nella mente del padre. Il secondo, figlio di Amotz e Daniela, a sua volta marito e padre, ingegnere presso l’azienda di famiglia, che non risponde alla chiamata da riservista nell’esercito. Non è un romanzo di guerra, ma l’ambientazione di Israele nella quale si dipana la trama è caratterizzata da un costante clima militaresco. Senza che ciò turbi i suoi protagonisti o provochi un deragliamento dell’intreccio. Agli occhi di un lettore italiano ciò desta impressione. Ancor di più per chi, come la nostra generazione, ha vissuto in prima persona la sparizione della leva obbligatoria. La naja sopravviveva negli aneddoti dei nostri genitori e degli ultimi coscritti. Ricordo il clamore che suscitò nell’opinione pubblica l’avvio dell’operazione “Strade sicure”, nell’estate del 2008, quando il quarto governo Berlusconi approvò l’utilizzo dell’esercito a sostegno del personale di pubblica sicurezza. La scritta “militari dappertutto, giustizia da nessuna parte” campeggiava innanzi all’Università Statale di Milano. Figurarsi l’impatto che può suscitare l’istituto del riservista, vincolo duraturo con le forze armate del proprio paese. Ho istintivamente solidarizzato con Moran, empatizzando con la sua vicenda. Molto ci accomuna: un matrimonio, due figli, i continui salti mortali per incastrare e rispettare tutti gli impegni familiari. Nella complessa organizzazione della vita quotidiana riceve comunicazione di presentarsi al comando a cui è assegnato per espletare il suo servizio in tuta mimetica. Una separazione forzata da affetti ed abitudini dal retrogusto autoritario. Una violenza privata legalizzata. Forse sto esagerando. «Ti piacerebbe, eh?» commenta sibillina mia moglie. «Un bel periodo per staccare, obbligandomi a mettere a letto le bambine.» Non può immaginare che, con una semplice battuta, ha centrato uno dei molteplici aspetti della realtà. Lo stesso Moran, agli arresti a seguito della propria diserzione, gode dei vantaggi nel non poter comunicare con l’esterno, allentando per alcune settimane i lacciuoli familiari e lavorativi. «Inoltre» prosegue, con tono compassionevole, «proprio non ti ci vedrei in uniforme. Sei fuori allenamento, troppo imborghesito, ansimi dopo un paio di rampe di scale. Per il tuo paese sei più utile in abiti civili.» La sentenza è definitiva, inappellabile. Non posso darle torto. In tutta onestà nemmeno io mi immagino passare dalla comoda e ampia scrivania in ufficio a ristretti posti di guardia, con elmetto basso sulla fronte e fucile spianato. Come ci riescono in Israele? Come gestiscono un simile sistema non solo senza rivolte interne, ma addirittura garantendosi uno degli apparati militari più efficienti e preparati al mondo? «Dormici su», mi suggerisce mia moglie, «tra poco inizia il tuo turno di guardia con la piccolina.»
Il giorno seguente decido di approfondire l’argomento partendo dalla normativa vigente. La legge di coscrizione israeliana prevede che i cittadini ebrei, drusi e circassi prestino servizio obbligatorio nell’esercito al compimento del diciottesimo compleanno. Poco più di due anni e mezzo per gli uomini, due anni per le donne. Per i cittadini arabi israeliani non vige l’obbligo, così come per specifiche deroghe di natura religiosa, fisica o psichica. Una disciplina dettagliata è poi dedicata al personale in riserva. A seconda del diverso grado militare sono previsti i periodi massimi di servizio. Dai quarantadue giorni per un soldato semplice agli ottantaquattro ogni tre anni per un ufficiale, passando per i settanta di un sottufficiale e i cinquantaquattro di un soldato regolare. Lassi di tempo più brevi sono previsti per gli studenti universitari. Tale vincolo permane sino al compimento del quarantesimo anno d’età, elevato a quarantacinque per gli ufficiali e quarantanove per riservisti con compiti e competenze specifiche (personale sanitario, tecnici, meccanici, piloti). Fino a questo limite anagrafico l’unico periodo di tempo nel quale si è svincolati da obblighi militari è nei dodici mesi immediatamente successivi al congedo dal periodo di leva. Il risultato di queste disposizioni è tutta nella potenza di fuoco dell’esercito israeliano. Su una popolazione di circa 8.300.00 abitanti, ogni anno raggiungono l’età dell’arruolamento 122.000 cittadini. Le statistiche del 2018 rilevano circa 445.000 unità riserviste che, sommate al personale attivo, totalizzano la bellezza di 615.000 unità. Il budget per la Difesa ammonta a circa venti miliardi di dollari, il 6,35% del bilancio nazionale. Questi dati, processati secondo diverse formule dal portale globalfirepower.com, parametrano i valori dei singoli eserciti mondiali. Israele in questa speciale classifica si piazza al sedicesimo posto. Peculiarità del paese mediterraneo è la proporzione rilevante tra popolazione e personale militare: un soldato ogni tredici abitanti e mezzo. Il confronto con l’Italia è esplicativo. Su una popolazione complessiva di poco superiore ai sessantadue milioni di abitanti, l’esercito nazionale può contare su circa 267.000 soldati: uno ogni 223 abitanti. La spesa militare sfiora i trentotto miliardi di dollari: un’incidenza di nemmeno due punti percentuali sui conti di Roma. Senza dimenticare che il territorio israeliano è esteso per meno di un decimo rispetto a quello italiano. Queste proporzioni si manifestano nella loro evidenza anche con i paesi confinanti dello stato d’Israele: Egitto, Giordania, Siria, Libano. Oppure con il temuto Iran. I freddi numeri parrebbero indicare la contingenza d’una nazione che definiremmo, se non in guerra, pronta a scendere in battaglia. Bizzarro ossimoro, allora, l’appellativo del suo esercito: “Forze di difesa israeliane” (dall’ebraico Tsva ha-Hagana le-Yisra’el). Tale accezione tradisce uno schema catenacciaro, una sindrome d’accerchiamento, la paranoia dell’invasione? La spiegazione è racchiusa nella loro genesi storica. Nate ufficialmente il 31 maggio 1948 su ordine del Primo Ministro David Ben-Gurion dopo la dichiarazione d’indipendenza dello stato d’Israele, le Forze di difesa israeliane raccoglievano l’eredità delle preesistenti unità armate a difesa dei villaggi e insediamenti ebraici. Queste, razionalizzate e strutturate sotto un’unica bandiera, si ritrovarono a combattere sin dai loro primordi per salvaguardare l’integrità territoriale d’Israele. Un rapporto di vicinato con i confinanti arabi caratterizzato da periodi di conflittualità dichiarata ad altri più pacifici o di malcelata sopportazione. Difesa dei confini nazionali che, nei decenni, spesso si è realizzata con operazioni offensive e di espansione territoriale. Dallo sport al governo di uno stato sovrano: la miglior difesa è l’attacco. L’impressione destata dal romanzo di Yehoshua, soggettiva ed emozionale, pare avallata dai primi riscontri fattuali. Delle nuove domande si sollevano ed esigono una risposta. Nello stato sionista, per i suoi governanti quanto per i governati, quella militare è unicamente un’opzione politica oppure qualcosa di ben più radicato e profondo? Definire il paese uno stato militarizzato è una terribile stortura oppure un differente angolo di prospettiva dal quale poterlo osservare? E’ necessario andare oltre la superficie, superare la prima impressione, non lasciarsene influenzare né sentirsene appagati.
Contattare l’IDF (acronimo di Israel Defense Forces) è pressoché impossibile. D’altronde, dovessero rispondere a tutti i lettori italiani di Yehoshua incuriositi e ficcanaso…Non me ne cruccio. Voglio adottare il medesimo taglio stilistico di “Fuoco amico”, ossia narrare le ricadute private e umane di vicende pubbliche. Ecco perché decido di contattare la Comunità Ebraica di Milano. Ottengo un incontro con un suo membro, Doron G., presso la Scuola della Comunità. Il mio approccio è quello dell’esploratore: vado per conoscere un mondo nuovo. L’impatto è frontale, diretto. L’appuntamento è fissato nell’orario di uscita degli studenti, a una settimana esatta dal Natale. Nella corta via privata i ragazzi chiacchierano, scherzano, si rincorrono. Tutto normale se non fosse per la presenza di due mezzi militari che, alle estremità della strada, ne controllano gli accessi. Noto l’assenza di luminarie natalizie mentre una giovane guardia privata, in elegante abito scuro, mi inquadra e domanda cosa desideri. Spiego la ragione della mia visita. Vengo fatto accomodare superando controcorrente frotte di scolari. Pochi minuti di attesa ed ecco comparire Doron: cittadino israeliano, sulla sessantina, alto, gioviale, mi guida baldanzoso verso uno degli spazi riservati ai colloqui. Il tempo a disposizione scarseggia. Io sono una spugna pronta ad assorbire ogni singolo aneddoto, lui ha tantissimo da raccontare. Scopro di avere di fronte un figlio della Shoah. Suo padre sopravvisse ai campi di concentramento e alla marcia della morte. Al termine della guerra, in Israele, deciderà di strappare fisicamente da sé quell’esperienza rimuovendo il tratto di epidermide sul quale era tatuato il suo numero identificativo. Il significato di quella cicatrice verrà rivelata a Doron solamente in età adulta. «Sai, lui era mio padre. Non gli facevo certe domande. Della Shoah in famiglia non parlavamo mai. Non volevamo evocare ricordi dolenti per parenti e amici. Eppure non immaginavo che mio padre fosse un deportato» ammette. Con orgoglio rivendica il multiculturalismo del suo paese, dove ebrei e arabi convivono quotidianamente spalla a spalla. Non esiste un sentimento razzista in Israele. «Durante il mio servizio di leva ero di stanza nel deserto del Sinai. Fine anni settanta. Il nostro governo e quello egiziano stavano definendo i dettagli dell’accordo di pace. I soldati egiziani per noi non erano nemici, e viceversa. Ai check-point capitava spesso di mangiare assieme e condividere le razioni» ricorda con un filo di nostalgia. Eccoci al punto: l’esperienza militare. «L’esercito lo vivi ogni giorno in Israele. Qualcuno in famiglia, tra gli amici o i conoscenti è in servizio. I soldati sono nelle strade. E’ la nostra realtà» conclude. Già dai sedici anni ci si prepara per la leva così da farsi trovare pronti fisicamente e mentalmente. Saranno anni e mesi intensi, sempre in prima linea, nei quali bisognerà dare il meglio di sé ed essere al top. Proprio per questo che la scelta del reparto al quale si viene destinati è legata alle proprie capacità fisiche, intellettuali e culturali così da esprimere appieno le proprie potenzialità. Lo stress è enorme. Giovani donne e uomini si ritrovano a scherzare con la morte; responsabili nel difendere la loro terra e le persone più care che la abitano. «E’ strano sentirmi dire certe parole. In fondo nemmeno Israele è uno stato normale» conviene Doron, sorridendo. «Ma è un bene che Israele esista: innanzitutto per i popoli confinanti» aggiunge. Si ritorna alla vita civile consapevoli che toccherà l’onere di servire da riservista. Alla chiamata, nel volgere di un giorno, cambi d’abito per indossare nuovamente i paramenti militari. L’esercito è un mondo a sé, parallelo, con i propri riti e i propri linguaggi. Il clima cameratesco non si abbandona mai. Molti attendono il periodo di riserva con impazienza, anche solo per concedersi un distacco dal tran tran quotidiano. «Una meditazione forzata non meditativa» la ridefinisce con ironia Doron. Innegabilmente pericolosa. Prima di accomiatarsi mi racconta di Sefi, suo compagno d’armi, incontrato per caso anni dopo, gravemente ferito da una molotov. Stava rientrando dal suo ultimo giro di perlustrazione, alla sua ultima ora di servizio da riservista, quando è stato colpito. Sefi, uomo di sinistra, pacifista, contrario alle politiche aggressive dei governi israeliani, ha risposto alla chiamata da riservista. L’attacco subito non ha scalfito le sue opinioni. Al contrario le ha persino rafforzate. «Questa è la realtà. I migliori guerrieri sono i pacifisti» asserisce Doron. Ci salutiamo calorosamente con la promessa di un’altra chiacchierata. Mi allontano da quel luogo mentre in mente balugina Moran. In un contesto nel quale i doveri militari, tra cui l’obbligo di riserva, sono elementi costituenti l’ideale di cittadinanza, conformandone l’identità, quale spazio può trovare il suo rifiuto? La mancata risposta fa di lui un disertore, un cattivo soldato o un pessimo cittadino? Che valutazione può avere di sé, Moran? Rifletto, intabarrato, e passeggio. Dopo poche centinaia di metri mi ritrovo fuori dal Quartiere Ebraico: a segnalarmi il valico dell’ideale confine gli addobbi festosi che adornano vetrine e balconi.
Le parole di Doron sono come sassi lanciati in uno stagno. I migliori guerrieri saranno i pacifisti, eppure non si dubita circa che risposta dare alla chiamata militare. L’animo nazionale, con le diverse declinazioni, interpretazioni e pulsioni soggettive, pare solido. Le linee guide enunciate nel Codice Etico dell’IDF sono, d’altronde, perentorie. Parole quali tradizione, patria, lealtà, responsabilità sono la premessa di un dogma superiore: Israele non può concedersi di perdere una singola guerra. Il termine ebraico che definisce la riserva militare, miluim, riprende e rafforza ulteriormente il concetto. Presente anche nei testi biblici, miluim è la consacrazione a uno specifico compito, a un dovere sacro, a un ruolo insostituibile. La scelta del vocabolo da parte dei vertici militari alla fondazione delle forze armate israeliane fu mirata. In definitiva nemmeno Moran era un pacifista. La visuale va allargata: esistono dei movimenti pacifisti in Israele? Quanto influenzano il dibattito pubblico del paese? Qual è il peso di un no alla chiamata da riservista o, addirittura, da coscritto? Numerose sono le associazioni che in Israele tentano di mettere in campo strumenti nuovi e originali per affrontare il tema delle relazioni con i palestinesi e, più in generale, con il mondo arabo. Alcune di queste sono state fondate da cittadini israeliani che hanno declinato la chiamata a svolgere il proprio miluim. Le realtà maggiormente di rilievo sono due. Breaking the Silence, associazione che si pone l’obiettivo di rompere il silenzio circa l’occupazione dei territori e il ruolo delle forze armate nel tradurre in pratica questa politica. Per perseguire lo scopo divengono chiave le testimonianze di chi ha vissuto quell’esperienza in uniforme. Combatants for Peace, invece, è una organizzazione israelo-palestinese avviata da ex combattenti di ambo gli schieramenti e basata sul credo della non violenza. Il principio ispiratore è che altre strade, altre soluzioni e un’altra storia siano possibili abbandonando le armi. Dopo diverse risposte, suggerimenti e abboccamenti riesco ad avviare uno scambio epistolare con Elazar Elhanan (soprannominato Elik). Assistente presso la cattedra di Letteratura e Linguaggi classici e moderni nel programma di studi ebraici al City College di New York, egli è soprattutto uno dei fondatori di Combatants for Peace (C4P). Stupito dall’interesse dimostrato per questo argomento, mi riassume in primis la sua biografia. Coscritto alla leva tra il 1995 e il 1998 non ebbe la forza di esprimere i propri dubbi vista la mancanza di un discorso anti militarista strutturato in Israele. Il coraggio di rifiutare maturò negli anni e fu espresso nel 2002. A seguito di questa scelta, forte la delusione del supporto mancato da parte dei movimenti di obiezione, nacque C4P quale piattaforma sovranazionale, antirazzista e pacifista. «L’idea era quella di sviluppare una unione non violenta di resistenza all’occupazione. In tutta onestà, ad oggi, non so quanto C4P abbia realisticamente influito sul dibattito pubblico o sulla promozione dei diritti civili in Israele» ammette Elik. Il suo sconforto è in parte mitigato dal fatto che negli ultimi anni nel paese si discute su ridurre e cambiare gli obblighi di riserva; così come di un progressivo abbandono della leva a favore di un esercito composto da soldati professionisti e volontari. «Tieni conto che in materia già oggi le normative non coinvolgono l’intera popolazione israeliana” mi ricorda Elik. Numerosi limiti ed esenzioni sono previsti per le donne, per chi adduce motivazioni religiose e per i cittadini di origine araba. Gli ultimi dati disponibili indicano come il 26% dei potenziali coscritti risulti esentato dal servizio. Forse è per questo che le conseguenze nel rifiuto alla chiamata in riserva siano blande, e comunque decisamente meno gravi che nel caso della renitenza alla leva. «Metti in conto un periodo di detenzione» conferma Elik, «ma non si tratta di un crimine». Ogni situazione, d’altronde, ha la propria specificità. Anche per ciò che riguarda le possibili ricadute in ambito civile. «E’ tutto molto idiosincratico. Se sfuggi al tuo obbligo semplicemente perché ti fa schifo va tutto bene. Ma se apertamente contesti la politica razzista di Israele il discorso cambia. Potrebbero esserci ripercussioni in termini di occupazione e posizione sociale. Eppure io, ad esempio, non sono mai stato sanzionato» riconosce Elik. Per concludere, prendendo slancio dalle impressioni destate dal romanzo di Yehoshua, gli domando se non ritiene che la società israeliana formi un blocco unico e granitico a difesa dell’integrità della propria nazione. Dalla nostra prospettiva quella militare pare la panacea per tutti i mali d’Israele, nonché un suo fattore caratterizzante. Elik, senza mezze misure, censura questo tipo di logica. «L’immagine di Israele quale blocco compatto è vera quanto la visione data dell’Italia di un paese che odia i migranti. La TV e la stampa amano le semplificazioni. Credo che in entrambi i casi si tratti di sfumature. Non penso che Israele sia più militarizzato di qualunque altro paese occidentale. Forse siamo solo un po’ più selvaggi e non riusciamo a nasconderlo così bene” chiude sibillino.
La realtà è complicata, variegata, caleidoscopica. Lo intuiscono persino le mie bambine. Io ho affrontato l’argomento certo di ricevere una risposta netta, precisa, indefettibile. Ma tra le mani mi ritrovo poche tessere di un puzzle più grande. Le battute digitate aprono parentesi senza chiuderle. Le decine di articoli pubblicati in merito sulla stampa israeliana non dipanano la matassa. C’è chi denuncia gli alti costi che un riservista deve sostenere nello svolgimento del proprio dovere non adeguatamente rimborsati dallo stato (per il tramite del National Insurance Istitute). La minoranza etnica dei cittadini israeliani di origine etiope minaccia di non prestare servizio se non cambierà l’atteggiamento nei confronti della propria comunità. Eppure è notizia recente del primo membro di questa minoranza ad aver concluso il corso da pilota di combattimento. Sono stati avviati programmi per permettere anche ai cittadini affetti da disabilità di poter prestare servizio nell’esercito. Eppure si è resa necessaria la fondazione di un’associazione che tutelasse i pieni diritti e le pari opportunità dei soldati LGBT. Il tutto mentre la politica israeliana riflette sul futuro assetto delle proprie forze armate con vista sulle imminenti elezioni legislative. Una terra dannatamente ricca e complessa quella d’Israele. Caratteristiche emerse distintamente dalle parole di Doron ed Elik. Attributi che lo stesso Abraham Yehoshua così descrive in un passaggio emblematico di “Fuoco amico”: “E’ così che va in Israele, lampi, tuoni, un gran putiferio, ma subito dopo salta fuori il sole e tutto si placa. Peccato che la natura non si mostri più crudele con noi e ci costringa a combatterla anziché scannarci l’uno con l’altro.” E’ valsa la pensa tentare.
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