Medio Oriente
Record di elezioni e di vaccini: la pandemia è finita, Netanyahu (per ora) no
TEL AVIV – Ma nishtana in ebraico significa “cosa cambia”. Sono le prime due parole del verso che recita: “Cosa cambia in questa notte a renderla diversa da tutte le altre?” con cui inizia uno dei più celebri canti di Pesach, la Pasqua ebraica, che si è conclusa questa settimana per ricordare la fuga del popolo ebraico dall’Egitto, alla ricerca della libertà in Terra di Israele. Esattamente un anno fa, in Israele, si cantava Ma nishtana all’unisono dai balconi delle proprie case, divisi dalle proprie famiglie, perché anche qui, come nel resto del mondo, si entrava nel primo, di una lunga serie, di lockdown.
Il premier uscente Benjamin “Bibi” Netanyahu ha incentrato la sua recente campagna promettendo al proprio elettorato che quest’anno si sarebbe festeggiato Pesach con i propri cari, celebrando non soltanto la libertà del popolo ebraico ma anche la fine del distanziamento sociale, grazie ad un programma vaccinale che ha reso Israele il primo Paese al mondo per numero di vaccinati e il primo case study con cui iniziare a immaginare un futuro post-pandemico. Per realizzare questo ambizioso progetto, lo scorso anno Bibi ha corteggiato giorno e notte, nel verso senso del termine, Albert Bourla, CEO di Pfizer, garantendogli di acquistare i vaccini al doppio del prezzo standard e promettendo alla compagnia farmaceutica di poter accedere a tutti i dati del campione di vaccinati provenienti dallo Stato ebraico. Un’offerta imperdibile, e al tempo stesso la miglior campagna elettorale per un primo ministro che, già in carica dal 2009, qualora riuscisse a mettere assieme una maggioranza, confermerebbe, per la quinta volta consecutiva, il suo ruolo di “King Bibi”, come lo chiama sia chi lo ama, sia chi vorrebbe spodestarlo dal trono.
Ma nishtana significa “cosa cambia”. E in Israele alcune cose non cambiano mai. Negli ultimi due anni il popolo eletto è diventato il popolo delle elezioni, chiamato alle urne già quattro volte, tre delle quali andate a vuoto, fino alla messa a punto, lo scorso anno, di in un governo di unità nazionale per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Non è sopravvissuto un anno. Più che per scegliere i propri rappresentanti alla Knesset (il parlamento israeliano) il voto qui si è trasformato in un referendum per decidere le sorti del premier, prima ancora delle sentenze che, in linea teorica, lo attendono in tribunale nei prossimi mesi. Tre sono i processi (per corruzione, frode ed abuso d’ufficio) che da due anni gli pendono sulla testa come una spada di Damocle e che sono ormai diventati il motore trainante per spingere Bibi a non mollare. Se dovesse farcela anche questa volta, infatti, potrebbe finalmente far passare la legge di immunità parlamentare e rimandare per sempre tutti i suoi guai giudiziari.
Ma anche questa partita è finita al pareggio e, mai come questa volta, il paese si dimostra spaccato in due, tra il blocco di destra, costituito dal Likud di Bibi, i due partiti ultraortodossi e il partito di destra ultranazionalista, e il blocco “anti-Bibi”, con troppe voci (2 liste a sinistra, 2 al centro, 2 a destra) e nessun solista in grado di guidare il coro.
Come se non bastasse, quest’anno l’ago della bilancia, ovvero chi, con i suoi seggi, puó permettere di raggiungere i 61 (su 120) necessari per formare un governo, non è uno solo. Sono due, e si trovano agli estremi opposti. Da un lato c’è Naftali Bennett, leader di un partito di destra dal forte orientamento religioso-sionista. Dall’alto c’è Mansour Abbas, fondatore del neo-partito islamico Raam. L’acqua e il fuoco. Eppure, salvo defezioni dell’ultima ora da una parte all’altra, per poter formare una coalizione governativa ciascuno dei due schieramenti dovrà riuscire a far sedere entrambi al proprio tavolo. Uno dei tanti paradossi che rendono Israele, come sempre, un Paese unico al mondo: unico per il numero di tornate elettorali, e unico nella lotta alla pandemia.
Cosí, mentre si aprono i negoziati tra i diversi attori in gioco, e il vaccino fa il suo corso per raggiungere l’agognata immunità di gregge, le attività commerciali stanno tutte riaprendo assieme a quelle ricreative: piscine, palestre, ristoranti e musei. Tutti senza maschera se muniti di “green pass”, che ormai si scarica al volo via app. In un Paese senza alcuna certezza sul piano politico, l’unica vera certezza è che sta tornando aria di libertà. Specie a Tel Aviv, la città che non dorme mai, tornata al suo splendore con il giorno che si mischia alla notte, i mercati che animano la città, e la comunità LGBTQ* che si sta già preparando all’evento che si tiene ormai da decenni ogni inizio giugno: il Gay Pride. Solitamente ospita turisti di ogni credo, in arrivo da tutto il mondo. Quest’anno, dopo lo scorso in sordina, tornerà in grande stile ma in versione local, in attesa che i passaporti verdi diventino realtà e che il turismo torni come quella di prima. Ma l’entusiasmo si sente già vibrare tra le strade della Città Bianca e risuona fino alle onde del mare che la bagnano. Non si tratta solo della riapertura qui, ma dell’euforia nel vedere la luce in fondo al tunnel, per tutti. Il vaccino funziona. E presto funzionerà anche oltremare. Ma nishtana in ebraico significa “cosa cambia”. Le cose stanno finalmente cambiando. Non solo in Israele. Intanto in Israele.
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