Medio Oriente
Owen: «Gli attacchi di al-Sisi sono il fallimento della comunità internazionale»
È stato rinviato a data da destinarsi l’inizio dei colloqui fra i due governi libici che il mediatore delle Nazioni Unite Bernardino Leon era riuscito faticosamente a fissare per domani in Marocco. Il timore era nell’aria già da qualche giorno, ma ieri lo stop ai colloqui è stato ufficialmente confermato da Salah al Makhzoum, che conduce le trattative per conto del Congresso generale, il parlamento insediato nella capitale Tripoli ma non riconosciuto dalla comunità internazionale. D’altra parte, già lunedì la Camera dei rappresentanti di Tobruk, scaturita dalle ultime elezioni e riconosciuta dalla comunità internazionale, ha reso noto di aver sospeso la propria partecipazione. Lo schema a cui sta lavorando Leon prevede un governo di unità nazionale, guidato da un esponente neutrale rispetto alle parti (probabilmente un tecnocrate) con due vicepremier (uno parte), e il patto esplicito che le decisioni più rilevanti – dalla nomina dei ministri al ritiro delle varie fazioni armate che controllano ampie aree e i punti nevralgici del paese – dovranno avere l’assenso dei tre.
Al momento, comunque, a dispetto della frenata sul fronte diplomatico «un intervento di peacekeeping in Libia non è all’ordine del giorno», ha ribadito da Parigi il presidente del Consiglio Matteo Renzi, al termine del vertice con il presidente francese Francois Hollande. «La pace in Libia la possono fare solo i libici – ha poi aggiunto Renzi – Se dovesse fallire chiederemo che l’intervento diplomatico dell’’Onu sia ancora più forte».
Di seguito pubblichiamo l’intervista di Giuseppe Acconcia allo storico britannico Roger Owen, professore emerito di Storia del Medio Oriente all’Università di Harvard e autore di lavori che sono diventati dei classici sulla storia mediorientale moderna.
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L’attacco egiziano in Libia è apparso subito come un’aggressione unilaterale e ha demotivato gli animi più belligeranti in tutta Europa. La linea del Cairo di appoggio al governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, non è passata nella riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha puntato ancora una volta sul mandato conferito al mediatore Bernardino Leon per il dialogo tra il governo guidato dal premier al-Thani e quello “islamista” di Tripoli, guidato da Omar al-Hassi. Per parlare della crisi libica abbiamo intervistato Roger Owen, fra i massimi esperti al mondo di Medio Oriente.
Come valuta l’intervento militare egiziano in Libia?
Quella di al-Sisi non è un’azione militare seria: è uno show. Chi sono i jihadisti di Isis in Libia? Il Paese è pieno di contrabbandieri e criminali. Ma questo attacco serve ad al-Sisi per cementare l’opinione pubblica egiziana in vista delle elezioni. Secondo alcuni sondaggi l’80% della popolazione in Egitto approva l’attacco in Libia. E così, la strategia è quella napoleonica. Dopo una rivoluzione che porta la gente in strada devi creare un nemico esterno, lo attacchi e la gente si stringerà intorno a te. Per farlo, al-Sisi sta usando gli F-16 statunitensi, gli stessi che volavano su piazza Tahrir durante le rivolte del 2011. Normalmente per usare questo tipo di velivoli devi avere il permesso Usa. Al-Sisi non lo ha. Fin qui gli Usa non protestano, ma gli aerei militari statunitensi forniti all’Egitto sono fatti per non essere utilizzati. La mia sensazione è che in ogni caso gli egiziani non avranno tecnologia sufficiente per mantenere gli F-16 che sono in loro possesso. Non è detto poi che Washington ne fornisca altri, le relazioni Usa-Egitto al momento non sono certo buone. Ora l’Egitto agisce come Stati Uniti e Israele, attacca senza dichiarare guerra. Uno Stato sovrano non può farlo. Gli Usa lo hanno fatto spesso negli ultimi anni ma è molto pericoloso quando uno Stato attacca un altro Stato e dice che lo fa per colpire alcuni elementi all’interno di quel Paese.
Perché ancora una volta c’è chi vorrebbe attaccare la Libia?
Tutto è iniziato in Libia con i raid Nato contro Gheddafi. Allora pochi dissero che i raid erano sbagliati. Di sicuro gli inglesi hanno beneficiato del loro intervento armato in materia di approvvigionamenti petroliferi. Ma sono stati gli stessi britannici ad aver sviluppato il settore petrolifero libico. Se andiamo indietro all’attacco in Iraq del 2003, dove alcuni hanno cercato di convincere il mondo che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa, capiamo che ci sono sempre altre ragioni per descrivere un particolare governante come pericoloso, come c’erano per liberarsi di Gheddafi: queste altre ragioni sono il petrolio. Certo, qui si può dire che i britannici avrebbero potuto vedere compromessi i loro interessi petroliferi anche attaccando Gheddafi. Ora la situazione è completamente diversa. La Libia è nella totale anarchia. Chiunque voglia arrivare in Europa va là e tanta di raggiungere Lampedusa. Ma finché Usa ed Europa possono avere il petrolio non sono ansiosi di trovare una soluzione alla crisi. E così chi fornisce armamenti all’Egitto permette ad Al-Sisi di essere il poliziotto del Nord-Africa, di controllare da Est a Ovest il confine tunisino-egiziano. Attraverso queste frontiere porose passano contrabbandieri di ogni genere e dal deserto meridionale arrivano i Boko Haram.
Dai migranti al petrolio, l’Italia resta uno dei Paesi più esposti alle conseguenze della crisi libica, forse sarebbe necessaria una posizione più incisiva?
Al-Sisi si inserisce nell’assenza della politica estera italiana che non usa le sue navi per controllare i flussi migratori. E così l’Egitto può essere il poliziotto del Mediterraneo. La comunità internazionale può preferire lui. E poi il Cairo ha un Intelligence sufficiente da sapere di poter giocare questo ruolo e che gli europei non lo fermeranno. Se gli europei fossero stati più sensibili, avrebbero mandato navi per aiutare l’Italia nel controllo delle coste, purtroppo i migranti arrivano in stati relativamente deboli (Italia, Spagna, Turchia).
Restano spiragli per un negoziato tra le fazioni libiche?
Tutti vogliono negoziare in Libia ma nessuno sa cosa fare, in questo vacuum nessuno vuole intervenire e non sanno come mettere insieme le fazioni libiche. Il conflitto in Libia ha sfidato tutti. Non si può dire se sia tribale, religioso, criminale: è una combinazione di tutto questo. Per esempio io direi che chi si definisce Isis in Libia sono prevalentemente contrabbandieri. Piccole gang e giovani disoccupati armati possono attaccare un leader tribale locale, così ogni gruppo controlla 20 miglia e per attraversare quella zona è necessario negoziare.
Quindi si apre la strada per una secessione in Libia tra Cirenaica e Tripolitania?
Tre Paesi in Medio oriente non sono mai diventati Stati: Siria, Iraq e Libia. Per questo la cosa migliore finora è stato avere dei dittatori: Hussein, Assad, Gheddafi. Per liberarsi di questi governanti bisognerebbe tornare al sistema dell’Impero Ottomano in cui la Siria era divisa in 3 province (Damasco, Aleppo e Beirut); l’Iraq anche (Baghdad, Bassora e Mosul); e il nord Africa in città portuali. Questo si sta verificando con Assad che non controlla che una piccola parte di Siria, e il governo di Baghdad che non controlla Mosul. Prima di dividere gli stati bisogna esplorare la nozione di federalismo: eppure se questi accordi non sono formalizzati sono caotici. Oppure c’è al-Sisi che controlla l’anarchia come un poliziotto. Ma questa non è una risposta. Le bombe di al-Sisi sono il fallimento della comunità internazionale e la Libia ora è un Wild West.
(Foto di copertina, Thierry Ehrmann, Flickr, Creative Commons)
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