Medio Oriente

L’incognita di liberare di Mosul senza un preventivo accordo politico

18 Ottobre 2016

ERBIL (Iraq) –  Nella tarda serata di domenica, sulla 100 meters Road, la circonvallazione esterna di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, il traffico si è bloccato per far passare un convoglio: il sole dorato sullo sfondo rosso, bianco e verde della bandiera del Kurdistan svolazzava sui mezzi che trasportavano carri armati, armi, e peshmerga (le forze armate della regione autonoma curda). Nella notte, il rumore degli aerei da e per l’aeroporto di Erbil si alternava a quello del generatore di elettricità della casa di fianco.

L’operazione per liberare Mosul conquistata nel giugno 2014 dallo Stato Islamico era “imminente” già da qualche settimana, ma le operazioni di domenica sera sera non lasciavano dubbi che “fosse arrivato il momento per per per iniziare la liberazione della città”–come dichiarato dal presidente della regione curda Masoud Barzani. Annunciata ufficialmente dal primo ministro iracheno Haider al-Abadi nelle prime ore della mattinata («Proclamo l’avvio dell’assalto vittorioso per liberarvi dalla violenza e dal terrorismo di Daesh»), l’Operazione Mosul non è certo la prima nella lotta contro lo Stato Islamico. Tikrit, Ramadi e Falluja sono tra le città principali riconquistate dall’esercito iracheno tra il 2015 e il 2016. Una serie di vittorie che hanno lasciato un segno: la devastante distruzione della battaglia e un aumento vertiginoso del numero di sfollati iracheni.

La campagna militare per Mosul gode di un valore strategico e simbolico allo stesso tempo. Una vittoria nella seconda città irachena, taglierebbe un nodo chiave nella capacità dello Stato Islamico di mantenere il controllo su un territorio diviso tra Iraq e Siria, nonché una fonte di rendita e di prestigio. Riconquistare Mosul ha anche un chiaro significato simbolico: è dalla moschea di Mosul che Abu Bakr al-Baghdadi ha annunciato la creazione del califfato islamico. Ed è sempre nelle strade di Mosul che nel giugno 2014 venivano immortalati i soldati dell’esercito iracheno che abbandonavano armi e divise ritirandosi dalla città e lasciandola al controllo dello Stato Islamico.

Il coordinamento dell’operazione militare non è stata cosa facile. Al fianco dell’esercito iracheno sono coinvolti i peshmerga curdi, le forze di mobilitazione popolare Hasd al-Shaabi (una formazione di milizie sciite nate per contrastare l’avanzata dello Stato Islamico), forze provenienti dalla città e una coalizione guidata dagli Stati Uniti impegnata prevalentemente nel supporto aereo all’operazione. Mentre tutte le forze sono impegnate nell’operazione, è previsto che solo l’esercito iracheno, la polizia federale e quella locale entrino in città. Questo per prevenire eventuali ritorsioni nei confronti della popolazione sunnita di Mosul, soprattutto da parte di Hasd al-Shaabi e l’emergere di altre tensioni, come già accaduto in altri parti del paese.

Cosa manca? Un chiaro accordo politico sul futuro della città: una vittoria militare a Mosul non è sufficiente. La liberazione della città non è certo qualcosa di inaspettato. Tuttavia, ancora non si vede traccia di un piano politico condiviso tra forze politiche locali, regionali e nazionali. Prima dell’avanzata dello Stato Islamico, Mosul ospitava diversi gruppi etnici e religiosi: cristiani, curdi, arabi sunniti e altre minoranze. La stessa diversità si rispecchia su tutto il territorio della provincia di Ninive, di cui Mosul è il capoluogo. Parte di questo territorio è conteso tra il governo federale di Baghdad e il governo regionale di Erbil. Questi sono territori i cui confini e la cui popolazione sono stati oggetto delle politiche di cambiamento demografico durante il regime di Saddam Hussein.

Al momento, in parte in reazione alla politica settaria di Baghdad – specialmente durante il mandato del primo ministro Nuri al-Maliki – e in parte alla ferocia dello Stato Islamico, prevalgono posizioni di stampo separatista. Diverse minoranze all’interno della provincia chiedono maggiore autonomia di governo nella forma di regioni federali. I Turcomanni hanno richiesto la formazione di una regione federale a Tal Afar, i cristiani nella Piana di Ninive, e gli Yazidi a Sinjar.

Questi sentimenti di sfiducia sono comprensibili alla luce degli abusi subiti da questo o quel gruppo. Oggi perseguire una politica di separazione può apparire la soluzione più facile. Ma come dovremmo aver capito dall’avanzata dello Stato Islamico nel Medio Oriente, nemmeno i confini nazionali – quelli tra Iraq e Siria – sono riusciti a prevenire l’affermarsi di una politica violenta contro chi si ritiene diverso. Oggi, l’Iraq ha bisogno di politiche e politici coraggiosi proiettati verso il futuro e non intrappolati nel passato.

Alcune voci dalla provincia, fra queste l’ex governatore della provincia di Ninive Atheel Al-Nujaifi, hanno chiesto la partecipazione diretta e comprensiva di tutti i rappresentanti della provincia nel determinare il futuro di Mosul e dei territori circostanti, limitando le influenze di Baghdad e Erbil sul tema. Un primo passo, forse. Al contrario, posporre un accordo politico all’eventuale vittoria militare su Mosul, comporta il rischio di dover fare i conti con ulteriori complicazioni – a cominciare dall’effettivo controllo del territorio – che renderanno il processo di riconciliazione all’interno del paese ancora più difficile.

@IreneCostantini

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