Medio Oriente
Odi et non amo
Quale sarà il frutto di tutto quest’odio sparso a piene mani ovunque in questi ultimi decenni? Sembra che sia il sentimento più in voga e soprattutto che sia quello che i bambini di oggi assorbono per primo. L’amore è assolutamente superfluo, sembra si possa vivere senza, ma senza odio assolutamente non si può. Il filo conduttore di quest’articolo, che prende spunto da vicende lontane ma in qualche modo correlate, è proprio la metastasi dell’odio nelle sue varie facce e come i bambini siano le vittime più indifese e i suoi probabili futuri propagatori.
Gli esempi vengono dall’alto, naturalmente, in primis dalla politica. Ho sempre più difficoltà a usare la parola “politica” per definire questa gente che si aggira in Parlamento, superpagata da tutti noi e che inutilmente scalda la poltrona. Così come pure gli eletti nell’amministrativo, anche quelli sono, ahimè, “politici”. Costoro sono, dicevo, i primi a far scuola coll’odio e non è solo nel nostro paese che accade. In queste ore le guerre accese nel mondo spalmano l’odio a tonnellate.
Vediamo un po’ come i nostri “politici” affidano all’odio le loro ragioni. Chi si è fatto eleggere ha basato la propria campagna elettorale sull’odio. Chi fa questo lo fa perché in realtà non ha assolutamente nulla di concreto da proporre e infatti si è visto il risultato dopo poco più di un anno al governo di queste destre incapaci di alcunché se non di peggiorare parabolicamente le cose. Ricordiamo tutti gli slogan di Meloni e di Salvini, soprattutto in campagna elettorale: erano una continua aggressione verso questo o verso quello. In particolare le comunità minoritarie e più deboli erano le più bersagliate perché in contrasto colla triade Diopatriaeffamiglia: la grande famiglia LGBT+ e i migranti. Facili bersagli per degli slogan di odio, perché ciò che non si conosce fa paura alle menti più inconsapevoli e suggestionabili: se urli cento volte al giorno che le famiglie omogenitoriali sono dannose per la società o che i migranti sono un pozzo di delinquenza, nonostante sia una menzogna, le persone meno attrezzate d’intelletto finiscono per crederci e ti votano. Così la poltrona è assicurata, cinicamente. Ma il danno fatto nella mente di quegli elettori (e al Paese) è assai più grave perché questi ultimi non si sono resi conto che ogni giorno riescono a odiare molto più di prima e, cosa peggiore, senza comprendere il perché di quest’odio iniettato a dosi massicce. La demonizzazione dell’avversario è la base di molte campagne elettorali, soprattutto le destre, che hanno sempre bisogno di un nemico per esistere. Trump è un maestro in questo. Anche il cavalierissimo lo era, agitando sempre lo spettro dei famosi “comunisti” sempre in agguato e i più sprovveduti ci credevano, come se l’Italia del XXI secolo brulicasse di comunisti mangiabambini. Magari! E giù odio, odio, odio verso chi dissentiva da princìpi e comportamenti ostentati da cavalieri e affini. Affini che sono, poi, gli psicofascisti, quelli che adesso sono al potere.
L’odio percorre strade principali e secondarie, non si ferma mai, permea le crepe e le fessure. Se mostri sempre e comunque solo i dati negativi del quotidiano è ovvio che l’immagine che si imprimerà nella testa della gente che preferisce non pensare sarà quella del migrante (preferibilmente di pelle scura) delinquente. Che ci sono pure, per carità, ma in una misura minima. Nessuno penserà mai che i veri grandi delinquenti sono in realtà funzionari e amministratori pubblici, di questo o quel partito, quindi politici, che usano denaro pubblico per propri scopi o che lo maneggiano, forse in parte anche in buona fede, senza sapere come utilizzarlo veramente e compiono sfaceli sociali, economici e territoriali. In pratica, mafiosi ripuliti e riciclati.
Una buona parte di questi delinquenti veri causa il degrado del territorio, concedendo terreni e beni pubblici o stravolgendone l’uso, facilitando, alla lunga, le catastrofi naturali. Negli ultimi anni abbiamo assistito cosa significhi aver devastato il territorio cementificando senza alcun criterio, se non l’interesse privato, certi territori che, puntualmente, sono stati invasi dalle acque meteoriche causando morti e feriti e miliardi di euro di danni: Ischia, la Romagna, le Marche, la Toscana. Naturalmente senza cambiare di una virgola, posteriormente, lo stato di quel territorio. Difficilmente si sentiranno i nomi e i cognomi di quei delinquenti, e sono parecchi, responsabili di tutto questo mentre sarà assai più facile sentire il nome di un migrante che rapina la donna sola nel parco o quello che la stupra. Se vien preso, per lui c’è il quasi linciaggio, grazie anche alle campagne d’odio generalizzatrici della politica, mentre tutti quei colletti bianchi, politici, che hanno deciso il disastro del territorio spesso restano anonimi. Anzi, si fa di più: si dà la colpa ai cambiamenti climatici, che non hanno un nome e un cognome ma che fa tanto sensibilità ecologica da strapazzo. Tanto, magari, quei delinquenti di stato hanno preso i quattrini e sono ormai irrintracciabili, ma il punto è che per coloro odio proprio non ce n’è, perché è incanalato altrove.
Ormai c’è una tale quantità d’odio in giro, accompagnato da un’aggressività mai vista a tali livelli, che basta poco per far scoppiare una rissa, ovunque, dalla coda in posta o al bar, al ristorante come in un condominio o un parcheggio. Non parliamo degli stadi e delle manifestazioni sportive perché lì si concentrano rabbie multiple e intelligenze mal distribuite, che chiamarle intelligenze è già un eufemismo.
I bambini sono i più ricettivi all’odio, forse anche perché, essendo un sentimento così coinvolgente, li fa partecipare a un rito percepito come importante, li fa sentire più grandi, più vicini al mondo adulto, pieno zeppo di esempi d’odio. L’aggressività viene ulteriormente stimolata dai videogiochi, uno più tremendo dell’altro, dove si deve eliminare un nemico o dei mostri o semplicemente restare da soli nel nido e agire, come il pulcino del cuculo che elimina le altre uova. I giovanissimi ormai hanno sempre meno occasioni di interloquire coi coetanei e anche cogli adulti. Ogni contatto è troppo spesso mediato da un apparecchio tecnologico di ultima generazione, sia un telefono, sia un tablet, sia un computer. Troppo spesso i genitori delegano la tecnologia a supplire uno spesso fugace contatto reale coi bambini per utilizzare il proprio tempo e fare le proprie cose più o meno liberamente. La madre che uccide i due bambini soffocandoli a distanza di poco tempo l’uno dall’altro è paradigmatica. I figli sembrano essere un impaccio. E i figli lo percepiscono e si difendono chiudendosi in questo mondo virtuale. Probabilmente, se non ci fosse la tecnologia, andrebbero da altre parti a cercare una sorta di comunicazione, ma almeno uscirebbero dalle quattro mura domestiche assolutamente improduttive.
I ragazzi crescono così senza un contatto diretto, sensibile, ossia uno sguardo, una frase, dei concetti espressi dall’adulto e spiegati ai piccoli. Diventano così automi, senza saper usare al meglio la tecnologia favolosa di cui dispongono per crescere, anzi, in molti casi, la usano per nuocere a questo o a quello, riprendendo colla telecamera situazioni di cui neanche loro conoscono la portata distruttiva, come quelli che riprendono lo stupro e lo ritrasmettono sui social pensando che sia una cosa degna dell’Oscar.
Questo voyeurismo senza contraddittori sta creando una generazione di irresponsabili. Se una persona fosse caduta per strada, tempi addietro, la prima cosa che avrebbero fatto le persone intorno sarebbe stata quella di soccorrerla. Oggi invece si riprende col telefono e poi, magari, ci si allontana. Tutti vogliono riprendere tutto, anche ciò che non ha importanza, in un’urgenza incomprensibile. Si deve postare ogni cosa si fotografi, si è cominciato coi piatti delle mense o dei ristoranti per poi allargarsi a una processione di selfie che magari era meglio tenere per sé, ma quest’incontinenza è il sintomo della necessità di comunicare, solo che non lo si sa più fare incontrandosi e parlando colle persone. Tanto è quello che fa Salvini, no? La pandemia ha esasperato tutto questo e il post pandemia lo ha fatto apparire normale, cristallizzandolo.
Io vedo, in palestra, ogni giorno, il rapporto morboso che le persone hanno col proprio cellulare. Quasi tutti giovani, perché sono nati col cellulare nella culla. La giovane donna truccatissima che si fa venti selfie di seguito a ogni esercizio, mettendosi in posa nel suo body che fa immaginare tutto, sembra che voglia mandare questo book per un provino al Grande Fratello o a qualche regista di soft qualcosa. Ma lei non si accorge di essere ridicola, vista dall’esterno, il mondo esterno non esiste per lei che vive in una bolla dal raggio di mezzo metro. La guardavo stupefatto qualche giorno fa. Altri controllano il cellulare che manda segnali di arrivo di messaggi a cui si deve rispondere necessariamente in tempo reale. Quando, poi, non si deve rispondere al telefono e allora la conversazione dev’essere per forza sentita da tutti coloro che stanno intorno. Magari anche urlando perché c’è la musica di sottofondo a un volume notevole. Non si può neanche assentarsi dal dovere di rispondere in quell’ora di esercizi per la salute del proprio corpo. Il tempo, ormai, segue altre scansioni, come se non dovessero esserci pause, silenzi, momenti di riflessione, soprattutto in pubblico bisogna riempire tutto ciò che sembri un buco.
Questo segnala un’ansia del vuoto, ossia non si sa come riempire i silenzi perché il silenzio è il nulla, sentire il battito del proprio cuore, i rumori del proprio respiro, sentire il ritmo del corpo, ascoltare i suoi segnali e il fruscio dei pensieri dev’essere coperto. Spesso questa mancanza di coscienza del tempo applicato alla scansione del proprio corpo e dalla posizione che lo stesso occupa nello spazio è indicativa del grado d’irresponsabilità delle persone. Se non si sta attenti a come ti parla il corpo figurarsi se si può stare attenti al corpo degli altri.
E, infatti, per strada è un continuo slalom per evitare che le persone ti finiscano addosso, intente come sono a smanettare sul proprio telefono, per occupare anche il minimo nanosecondo a mandare un selfie o un improrogabile messaggio attraverso l’etere. E lo dico da disabile, che invece collo spazio e col tempo ci sbatte di continuo e che viene spesso spintonato dai distratti.
Ma torniamo ai bambini. La dimensione virtuale in cui oggi sono immersi, un po’ dovunque nel mondo dove ci sia almeno un po’ di consumismo, è solamente uno degli aspetti per i quali si svilupperanno personalità disturbate. E rivediamo, per esempio, i messaggi di odio che la “politica”, e non solo, invia via social. I bambini hanno, ormai, accesso a tutto, anche se i genitori pretenderebbero controllare il mobile dei figli. Spesso se alcuni telefoni sono bloccati per la ricezione di messaggi non idonei c’è sempre quello del compagno di scuola o dell’amica che non lo è. Oppure sanno come sbloccarli, sono assai smaliziati. I messaggi che arrivano, senza un filtro da parte di un adulto consapevole lasciano segni forti, che successivamente possono cronicizzarsi e svilupparsi in negativo. Un bambino è alla costante ricerca di certezze e se, nell’assenza dei genitori, quelle certezze arrivano da messaggi e slogan non spiegati poi si rischia l’emulazione.
Per esempio, se un ragazzo vede Salvini che bussa a un citofono per chiedere se lì abita uno spacciatore, si dirà: ma se lo fa lui lo posso fare anch’io. Quell’azione impropria e anche illegale potrebbe diventare il cattivo esempio e Salvini diventare un eroe per una mente debole. Questo tra i tanti esempi. Video di attività sessuali di minori circolano in continuazione tra i giovanissimi, per mostrare quanto quella ragazzina sia disponibile o ci sappia fare, e magari, che drittona, si faccia anche pagare per quello, o quel ragazzino sia dotato, senza capire la portata di quei gesti, senza capire dove possono andare a finire quelle immagini e chi le possa usare per scopi illeciti. O possono anche essere usate come ricatto.
Per non parlare del cyberbullismo. È di sabato scorso il suicidio di un ragazzo di Palermo bullizzato a scuola (media) in quanto gay e perseguitato e dileggiato nelle chat dai suoi compagni o da altri. Le indagini stabiliranno chi e come lo abbia bullizzato.
Andiamo indietro come i gamberi mentre Meloni disse pubblicamente solo qualche mese fa: “Avete già le unioni civili, che volete di più?”, con sprezzante indifferenza, senza comprendere che in mancanza di una legge completa che tuteli le famiglie LGBT+ sarà sempre più difficile eliminare l’odio radicato in secoli di discriminazioni verso chi è semplicemente diverso. Ma per Meloni è impossibile da capire, proprio cieca e sorda; di pietra, come dice lei. E nemmeno preziosa, una pietra ricostruita con pezzi presi qui e là.
Torniamo ai figli schiavi della tecnologia. Quest’assenza di responsabilità è data dalla libertà che il mezzo tecnologico fornisce, senza un uso consapevole del medesimo. Molti genitori, che credono così di poter controllare i figli sapendo sempre dove sono e con chi sono, sottovalutano il potere devastante che un mezzo come quello dato loro in mano porta sempre con sé. Il telefono intelligente, così, non è più un guardiano, anzi, al contrario, diventa un mezzo per diventare guardoni.
Naturalmente la mia non vuol essere una demonizzazione dell’ordigno perché il mezzo è quello che è, può salvarti la vita ma può anche portarti a perderla se usato male.
Ciò su cui io vorrei focalizzare l’attenzione è che la tecnologia non può e non deve sostituire il rapporto umano e che sarebbe bene che le persone, tutte, limitassero l’uso smodato che se ne fa fin dalla più tenera età. Oggi ero in coda alla cassa del supermercato e c’era una giovane mamma che, anziché parlare colla sua bambina, mostrandole cosa avevano comprato, a cosa serviva questo o quello, eccetera, dandole così informazioni utili, lasciava che la piccola, forse di cinque o sei anni, giocasse a un rumoroso videogioco sul suo minitablet, mentre lei chattava con qualcuno, in un doppio solipsismo che mi ha inorridito. Avrei voluto dire qualcosa a quella madre ma poi sicuramente lei mi avrebbe redarguito dicendo che la figlia era sua e di farmi i fatti miei. La bambina non era minimamente interessata al mondo intorno a sé ma, pur concentratissima sul suo trabiccolo elettronico, cercava il cappotto della madre a cui attaccarsi coll’altra mano, senza che la madre le facesse una carezza sul capo per rassicurarla che ci fosse. Dieci minuti così. Poi non so come sia finita, si è aperta un’altra cassa e io mi sono subito fiondato per evitare di stare ancora lì inutilmente. Ma la cosa mi ha infastidito lasciandomi immaginare scenari abbastanza tristi. Di queste scene mi capita di vederne non poche, quando vado in giro. Immagino che ce ne siano ben di più. E leggo anche di sempre più frequenti aggressioni agli insegnanti delle scuole medie e superiori da parte di allievi e, soprattutto, dei genitori delle dolci creature che hanno sempre ragione, incanalando odio e rabbia verso chi, invece, tra l’incredibile sviluppo della burocrazia e cecità ministeriale, cerca di fornire al figlio o alla figlia di quei genitori degli strumenti per capire il mondo. Mondo che quei genitori sono incapaci di percepire e quindi di spiegare alla progenie.
I bambini sono le creature ideali per indottrinare l’odio. Pensiamo solamente alle scuole religiose, non importa di quale religione. Le religioni fondamentaliste insegnano ai propri pargoli chi è il popolo eletto, chi è il suo Dio, che cosa fa quel Dio e, soprattutto, chi sono i nemici. E questo sia che siano testimoni di Geova, ebrei, protestanti, cattolici, musulmani o altro. Ovunque, in Asia, in Europa, in Africa, nelle Americhe. Le scuole religiose sono i luoghi dove l’odio ha più probabilità di essere insegnato e, purtroppo, appreso. I libri sacri ne grondano.
Naturalmente se le circostanze intorno sono negative, l’odio non può che crescere, fertilizzato dalla situazione contingente. Gli eserciti armati di bambini, spesso orfani, in Nigeria e altri paesi dell’Africa fanno rabbrividire.
Che cosa possono pensare i bambini di Gaza, di Damasco, di Kabul, di Bengasi quando intorno a loro non c’è che guerra o guerriglia, portate avanti da sette e fazioni fondamentaliste, e ci sono gli amici o i nemici, soprattutto i nemici sono i paesi che si schierano contro e che bombardano, schema assai semplice da inculcare in giovani menti? Il danno è compiuto fin dal primo giorno di scuola e non sarà mai più risanabile perché il recupero è semplicemente impossibile, non ci sono i mezzi né il tempo per farlo e gli adulti, anche se volessero, non fanno nulla per spiegare, anzi, con odio accumulato in decenni di continua emergenza, avranno anche loro una personalità disturbata e piena di astio.
C’è un film meraviglioso, nella sua crudezza, di Denis Villeneuve, cineasta canadese: Incendies, tradotto in italiano La donna che canta (2010). È ispirato alla storia vera di Souha Fawaz Bechara e spiega le radici dell’odio. Vi si tratta della guerra in Libano tra cristiani e musulmani che, come ogni guerra, più che mai quando le motivazioni sono i fanatismi religiosi, produce disastri, sia in quel momento che nel futuro. I bambini che riescono a salvarsi crescono come selvaggi e i genitori che li hanno persi di vista e che magari li cercano, poi, per come vanno le cose nella vita, non li trovano più. La donna protagonista aveva perduto il suo bambino perché era figlio impuro, in quanto lei era cristiana e lui musulmano. Lui viene ucciso dai fratelli di lei e la madre di lei, che la assiste nel parto, perché in un futuro la figlia possa ritrovare il bambino, tatua sul piede del neonato tre segni. Per evitare che il bambino sia ucciso dagli uomini la nonna lo porta lontano. La donna viene ripudiata dalla famiglia (cristiana) perché l’ha disonorata con quel rapporto impuro. Dopo vicissitudini varie in cui la donna cerca senza sosta il suo bambino, scopre che l’orfanotrofio dov’era stato portato è stato bombardato dai mussulmani. I bambini sono stati rapiti dal militante mussulmano che ha ucciso tutti gli adulti. In questo modo i bambini diventeranno la milizia di Allah del terrorista. In un altro momento, sempre alla ricerca del figlio perduto, l’autobus dove lei viaggiava viene fermato da milizie cristiane che uccidono tutti i viaggiatori, mussulmani, tranne lei che portava un crocifisso nascosto. La donna poi, per vendicarsi di tutte le angherie subite, decide di entrare a far parte di una milizia dell’opposizione e si infiltra come insegnante privata del figlio di un importante esponente della destra cristiana che riesce ad ammazzare. Per questo viene imprigionata per quindici anni e, durante la prigionia, canta sempre per non farsi uccidere dal tempo che scorre, mentre viene ripetutamente stuprata dal suo giovane torturatore. Passato il tempo della pena viene scarcerata ed emigra in Canada, dove porta con sé i due figli gemelli, nati dallo stupro.
La donna, a un certo punto della sua vita, prima di morire, smette di parlare. Nessuno capisce perché. Lascia un testamento ai figli, dicendo che se vogliono trovare il padre devono andare a ricercarlo in Libano. Li aiuta il notaio, umana figura che voleva bene a quella famiglia, e la verità che si delinea a poco a poco, una ricerca dopo l’altra, è terribile. La donna aveva smesso di parlare dopo un ictus causato da uno shock, avvenuto al bordo di una piscina: aveva riconosciuto la voce e poi la faccia del suo violentatore, un giovane emigrato anche lui in Canada, ma, guardando meglio i suoi piedi nudi, scopre che sul tallone aveva i tre segni tatuati dalla nonna, in modo che un giorno lei potesse riconoscerlo. Il padre dei suoi gemelli era quindi anche il loro fratello. Tragedia greca nella migliore tradizione.
Se vi capita di vederlo rifletteteci su, è terribile, ma chissà quante storie come queste esistono nella realtà, soprattutto in quelle zone di guerra permanente. Chissà che succederà dopo le mattanze israelo-palestinesi o quelle russo-ucraine. Anche in Russia, i bambini ucraini rapiti per essere riconformati secondo il putinismo sono un orrore di cui si parla poco, nell’ipocrisia generale.
E comunque è immensamente più facile odiare che amare e questo il potere lo sa molto bene. Guardatevi quindi dal potere, siate sempre critici, non fatevi mai convincere fino in fondo senza aver prima analizzato ogni aspetto, parlandone con altri, magari con persone consapevoli. Soprattutto non fatevi vincere dai pregiudizi, che sono più comodi.
Io continuo a notare l’assenza dei grandi intellettuali che dovrebbero inondare tutto, stampa, tv, cinema, teatro, di pensieri sensati e ridicolizzare le minchiate che i governi, soprattutto questi ultimi, ci propinano pensando che siamo tutti decerebrati.
Che la RAI, la più autorevole istituzione informativa d’Italia, ormai ridotta a longa manus del governo di estrema destra che ha inquinato il Paese, abbia lasciato andar via gli intellettuali migliori che avesse avuto a disposizione per logiche di nepotismi squallidi, specchio di ciò che avviene a Montecitorio, è uno dei più grandi delitti di questo esecutivo. Anche perché ciò che si è costruito nel tempo, una volta distrutto, difficilmente si potrà rimettere insieme con risultati analoghi. L’odio sarà ancora più facile da propagare. E, coll’odio, l’indifferenza, che poi caratterizza ogni catastrofe sociale in un paese.
Scrittori, attori, autori, tornate militanti. Vogliamo Corrado Augias e Serena Dandini non Pino Insegno e Nunzia De Girolamo.
Articolo profondo e meditato. Non stupisce l’abbia scritto Massimo Crispi, sempre così attento nel rapportarsi al prossimo, empatico con i fragili, rispettoso con le donne, collaborativo con gli altri autori de Gli Stati Generali. Mai una polemica, una denigrazione, un’offesa, un’allusione scomposta o volgare nei suoi articoli e nei suoi commenti. Amor vincit omnia.
Grazie, Alida.