Medio Oriente

Nuovo referendum su Netanyahu: tutti vogliono batterlo, poi lo abbracceranno

5 Settembre 2019

Da un’elezione all’altra nello spazio di pochi mesi Israele sembra non aver altro tema da trattare che Benjamin Netanyahu. Il voto finisce per diventare soprattutto un referendum nei suoi confronti. Nessuna strategia sembra quella buona per sconfiggerlo. Eppure di nemici ne ha moltissimi: a sinistra come a destra e anche al centro. La sua indiscussa capacità oratoria, un trasformismo senza scrupoli unito a una prudenza nei fatti anche se non nelle parole lo hanno reso credibile e sempre “irresponsabile” di ogni problema. Un blocco del 25% degli elettori israeliani gli dà fiducia a priori ed è pronto a votarlo elezione dopo elezione. E il 25% dei voti significa almeno 30 seggi su 120. A questi poi se ne aggiungono facilmente altri raccolti all’ultimo dal gran calderone degli indecisi.

Inutili i tentativi dell’opposizione di attribuirgli responsabilità su crisi a Gaza o in Cisgiordania, su disparità sociali sempre più ampie, sulle concessioni ai partiti religiosi. A trasformarlo in una semplice voce dei libri storia potrebbero provvedere i giudici se il consigliere legale del governo, Avishai Mandelblit, deciderà di farlo incriminare per corruzione, frode e violazione di fiducia. Ma anche in questo caso Netanyahu ha pronta la contromisura: una nuova legge sull’immunità parlamentare, che lo protegga dalle inchieste. Dovrà, però,  farla approvare in fretta prima dell’incriminazione e per questo conta sui suoi futuri e possibili alleati di governo. Ma proprio da destra è uscito l’uomo, che potrebbe fargli saltare il piano, Avigdor Lieberman, un tempo direttore del suo ufficio governativo, poi fedele alleato e aspirante “erede al trono”. Lieberman è stato colui che ha impedito a maggio a Bibi di formare il suo governo spingendolo a nuove elezioni. È colui che ha trovato una nuova chiave per sconfiggere l’invincibile leader, colpirlo da destra sul tema della laicità. Proclamandosi paladino dello stato liberale in un paese dove la modernizzazione è frenata dai partiti religiosi ha fatto breccia. I sondaggi gli danno stabilmente il doppio dei seggi attuali: da cinque a dieci e forse oltre. La matematica dei sondaggi dice che senza Lieberman non si fa un governo di destra né tanto meno di centrosinistra. E lui abilmente si è posizionato al centro riprendendo un tradizionale mantra della politica israeliana: “il governo di unità nazionale”, che tanto piaceva a leader storici come Begin, Shamir e Peres, Ha proposto una coalizione laica tra i partiti Blu e Bianco)di Benny Ganz, il Likud e il suo partito Israele Casa Nostra. La soluzione di Lieberman mira a neutralizzare Netanyahu in una coalizione dove non abbia più la maggioranza e spinga il suo partito a sostituirlo.

Ma la strategia dell’alleanza non è patrimonio solo dell’ex-ministro della Difesa. Anche altri leader israeliani sembrano pensarla allo stesso modo. Lo stesso Ganz dopo aver toccato con mano in aprile l’impossibilità di sostituirsi a Netanyahu sulla poltrona di primo ministro continua a ventilare la possibilità di entrare in coalizione con chi voleva sostituire, ma non riesce a sconfiggere. E il motivo è da ricercarsi nello stesso partito e nella sua incapacità di proporsi come vera alternativa. Le critiche di Blu e Bianco al governo si concentrano sulla difesa del potere giudiziario e le istituzioni di garanzia come l’ufficio del “Controllore dello Stato” a capo del quale BIbi ha da poco messo Matanyahu Englman. Non un giudice come era tradizione bensì un amministratore vicino al partito di maggioranza e che è già al lavoro per indebolire il ruolo di garanzia del suo ufficio e sembra concordi le sue scelte di nascosto col primo ministrro. Occuparsi di questo tema non basta per definire i contenuti di una politica di opposizione come ha scritto Guy Rolnik su The Marker, quotidiano economico edito da Haaretz. Servirebbe avere una soluzione per Gaza, piani per eliminare la dipendenza della politica dai capitali dei gruppi d’interesse, per smantellare i monopoli e ridurre la crescente disuguaglianza economica, spiega Rolnik. A queste mancanze del principale partito di opposizione si aggiunge la sua indisponibilità a legittimare la “Lista Comune Araba” come possibile partner di governo. Oggi i cittadini arabi d’Israele costituiscono il 18% della popolazione (9 milioni di abitanti) e non è possibile escluderli a priori da un governo col pretesto che non accettano l’ebraicità dello stato. Ayman Odeh, a capo della Lista Comune si è dichiarato disponibile a valutare l’ingresso nel governo della sua lista, ma la sua offerta non è stata per ora raccolta. E Bibi ne ha subito approfittato per lanciare lo slogan “O Bibi, o Tibi”, riferendosi ad Ahmed Tibi, rappresentante dell’al più estrema del partito arabo unito. Rinunciare a priori ad un’alleanza con questo partito per l’opposizione significa fare a meno di 10/11 seggi e quindi diminuire, se non azzerare le possibilità di costituire un governo di alternativa.

Il sospetto di voler abbracciare Netanyahu dopo le elezioni alleggia anche sui  laboristi di Amir Perez alleati di Ponte, il partito di Orli Levy Abecassis, figlia di David Levy, noto uomo politico del Likud, più volte ministro degli Esteri. Perez ha dichiarato di voler rafforzare il suo partito prendendo voti a destra e questa scelta unita a una certa ambiguità ha lasciato pensare che proprio i laboristi con 6/8 seggi potrebbero essere dopo le elezioni la stampella ideale per un nuovo governo del Likud. Non una novità per i laburisti storicamente inclini a cadere in tentazione con governi di centrodestra.

L’unico partito, a parte la lista araba, che sembra immune da ogni tentazione di governo è L’Unione Democratica di Nizan Horowitz, Stav Shafir fuoriuscita dai laboristi, Ehud Barak, l’unico che ha sconfitto Netanyahu alle elezioni nel 1999. Questa forza politica dopo una partenza carica di aspettative è accreditata dai sondaggi di  7/8 seggi. È l’unico partito che, per bocca di Ehud Barak, ha presentato delle proposte per risolvere il conflitto con i palestinesi. Il suo piano prevede un accordo di pace regionale che affronti i temi della minaccia iraniana, del terrorismo islamico radicale, di un progetto di sviluppo delle infrastrutture e della questione palestinese secondo il principio dei due stati o comunque di una forma di di separazione tra i due popoli. Il laborista Amir Perez invece si è limitato a dire che appoggerà Netanyahu dall’esterno se quest’ultimo deciderà di aderire al piano Trump, ancora mai presentato.

Tutt’altro che disponibili a restare fuori dalle stanze del potere sono i partiti religiosi, che si rivolgono a un elettorato piuttosto variegato e ricco di sfumature. Fino a pochi anni fa i cosiddetti ortodossi erano rigidi sul clericalismo, ma flessibili sul piano politico. Al contrario, invece, i nazional religiosi erano intransigenti sul concetto della “Grande Israele”, mentre erano più aperti al dialogo con i laici e soprattutto mandavano i loro giovani, maschi e femmine, ad arruolarsi. Oggi, invece, ci sono ortodossi nazionalisti, nazional religiosi semiortodossi, religiosi light, religiosi pacifisti e democratici. Con questi ultimi, però, in netta minoranza. I maggiori pericoli derivano da personaggi come Betzalel Smotric del partito A Destra, capeggiato da una donna laica, Ayelet Shaked. Smotric vorrebbe un paese, dove le uniche leggi fossero quelle bibliche, senza donne nell’esercito e con i territori occupati annessi allo stato d’Israele. Smotric, attualmente al dicastero dei Trasporti, è col suo partito contemporaneamente un alleato e una minaccia per Netanyahu, che non si fida di alleati troppo intraprendenti a destra. A voler salire sul treno del prossimo governo sono in tanti, forse troppi, almeno 100 deputati sui 120, che compongono la Knesset. E anche a voler sostituire Netanyahu sono in molti, soprattutto nel suo stesso partito, ma al momento non sembra ci sia nessuno con il suo carisma e la sua esperienza che lo possa sfidare davvero. E allora tanto vale abbracciarlo.

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