Giustizia
Morte, non andare orgogliosa
Oh, morte, non andare orgogliosa
abbiamo la nostalgia e il desiderio
abbiamo la nostra terra
che mia madre coltiva
là ha piantato un olivo e un fico
ha piantato un fico d’india e un cactus
i miei occhi non abbandonano la sua fronte
è mia madre…mi allunga le braccia da dietro al muro
è mia madre…mi asciuga la fronte
mi batte sulla spalla
alzati, il mattino sta arrivando
e noi ci inginocchieremo solo davanti a Dio
Cella 43, 2/11/1983
Di abusi, torture e violenze nelle carceri israeliane si parla da anni.
Ed è l’articolarsi meticoloso di un progetto: «L’incarcerazione di 800mila palestinesi in meno di 60 anni va considerata un piano preciso. Quando detieni una persona, non colpisci solo lei: la prigionia ha effetti sulla famiglia e sulle sue dinamiche, sulla capacità di provvedere per sé, e ha effetti sulla società quando i numeri sono così enormi. Il progetto è distruggere la società palestinese» (Shai Parnes, portavoce di B’Tselem).
Ma la situazione è drammaticamente peggiorata dopo la strage di Hamas del 7 ottobre.
Israele detiene oggi oltre 9300 palestinesi che classifica come “prigionieri di sicurezza”, un aumento di oltre 4000 persone dall’inizio della guerra, inclusi 3661 detenuti amministrativi, trattenuti senza accusa né possibilità di processo. Tra loro ci sono quasi 200 bambini, di cui 61 in detenzione amministrativa. Il numero di persone di Gaza detenuti dall’esercito israeliano non è noto, ma le stime sono nell’ordine delle migliaia. Molti di loro sono già tornati cadaveri, in sacchi di plastica blu, spesso senza organi interni.
L’ong israeliana B’Tselem ha diffuso un lungo rapporto sulla situazione nelle carceri israeliane (qui), definite «campi di tortura», e sui sistematici abusi subiti dai prigionieri palestinesi. Il rapporto è intitolato “Benvenuti all’inferno” e si basa sulle testimonianze concordi di 55 persone palestinesi detenute dopo lo scorso 7 ottobre.
Da febbraio è disponibile in italiano la traduzione di una testimonianza molto intensa: Suaad Genem, Il racconto di Suaad prigioniera palestinese, edizioni Q.
Nella Casa del Municipio Roma, lo scorso luglio, durante la presentazione del suo libro, si è presentata così: «Sono nata nel ’57, tutto il villaggio in cui vivevo era circondato da insediamenti colonialisti. Ho vissuto 24 ore al giorno il colonialismo. Sono una donna cresciuta in prigione, non credo di essere un’ex prigioniera, siamo ancora prigionieri di uno Stato colonialista, i palestinesi sono perseguitati dappertutto. Quello che ci è stato tolto, vogliamo che ci venga restituito tutto».
La sua è una testimonianza che riguarda una delle tre detenzioni da lei subite. Suaad definisce il sistema carcerario israeliano «un’architettura dell’umiliazione» e infatti nel libro prende corpo una galleria degli orrori che richiede al lettore un notevole impegno per poterne reggere il racconto: abusi, violenze, torture, fame, condizione igieniche disastrose, mancato accesso a cure mediche, procedure degradanti. Ad un certo punto persino un tentativo di strage, quando una rivolta con sciopero della fame, viene repressa con l’inondazione del penitenziario con un gas tossico che costringe le guardie a girare il carcere per giorni con maschere antigas e bombole di ossigeno.
Ma la narrazione ha una sua speciale bellezza perché documenta come Suaad sopravvive in forza di un’immaginazione creativa e fervida con cui evade da un presente così orribile rivivendo memorie della sua infanzia e della sua vita di donna libera. E poi attraverso la scrittura: «in certi momenti il profumo della libertà m’invadeva; trascrivevo i pensieri, li fissavo sulla carta e talvolta anche sulle pareti su cui, in seguito al sequestro di biblioteca e quaderni, tutte noi scrivevamo…La prigione è un pianeta che viaggia in parallelo alla terra sulla quale procedono le nostre vite. La dimensione del pianeta-prigione è la piccolezza, ma diviene un’area che si estende con le speranze e i sogni di libertà».
Il racconto ha anche una sua speciale energia nel documentare la detenzione come laboratorio di formazione politica e di resistenza solidale.
Le prigioniere si uniscono superando opinioni politiche e appartenenze a movimenti diversi della resistenza palestinese, gestendo turni, affrontando insieme sfide al rischio della vita come lo sciopero della fame ed eleggendo portavoci cui delegare i pareri del collettivo per trattare con l’amministrazione penitenziaria.
La testimonianza di Suaad risale alla sua carcerazione nel 1983.
Per quanto riguarda l’attualità, in rete è presente un video in cui il ministro israeliano della sicurezza Ben-Gvir, responsabile dell’agenzia che gestisce le carceri israeliane, dichiara che il problema della sovrappopolazione penitenziaria va risolto con la fucilazione di tutti i detenuti palestinesi.
Il ricavato della vendita del libro di Suaad Genem è destinato a sostenere l’Associazione Gazzella ODV che si occupa di cura di bambini nella striscia di Gaza
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