Medio Oriente

Medio Oriente, 2015: la fine del sogno democratico

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3 Gennaio 2015

Il 2014 è stato l’anno di Abdel Fattah al-Sisi, il generale egiziano che ha appeso al chiodo la sua divisa militare per indossare giacca e cravatta e guidare, da presidente eletto, con una manciata di voti, il più grande Paese africano e la porta del Medio Oriente. Al-Sisi è stato acclamato come l’uomo della stabilità da Mosca, per cui l’asse di ferro con Vladimir Putin ha rafforzato l’ascesa del golpista, e poi dal guanto di velluto degli Stati Uniti. Nonostante le critiche sulla violazione dei diritti umani in Egitto da parte del presidente Barack Obama, il Segretario di Stato, John Kerry, ha più volte rassicurato gli egiziani per il pieno ritorno al passato nelle relazioni bilaterali, con lo scongelamento di parte degli aiuti militari Usa, bloccati dopo il colpo di Stato del 2013. Quindi al Cairo è tornato un ambasciatore statunitense, Stephen Beecroft, dopo oltre un anno di assenza, dalla fine forzata del mandato di Anne Patterson, accusata di aver incontrato i Fratelli musulmani, allora al governo. Non solo, Francia e Italia (meno entusiaste del nuovo corso egiziano sono Germania e Gran Bretagna) si sono mostrate pronte ad accogliere a braccia aperte al-Sisi, capaci di chiudere un occhio sulla repressione in corso nel Paese nel nome dei 700 milioni di euro di contratti bilaterali in campo energetico e non solo, siglati con il Cairo.

La restaurazione del vecchio regime

Dal 2011 a oggi, migliaia di persone sono morte per la democrazia in Egitto, quindi non è un fatto secondario se oggi nel Paese si celebri una profonda restaurazione. L’ultimo passo per il completo ritorno dell’ancien régime è arrivato con la storica sentenza che ha prosciolto l’ex presidente Hosni Mubarak dalle accuse di aver ordinato di sparare contro i manifestanti nei 18 giorni di occupazione di piazza Tahrir: la vendetta è compiuta, la restaurazione completata. Il paradosso è che invece Mohammed Morsi, ormai una specie di incidente di percorso più che ex presidente, il primo eletto nella storia egiziana, rischia la pena di morte per spionaggio. Mubarak e i figli Alaa e Gamal sono stati assolti anche dalle accuse di corruzione e di guadagni illeciti mosse contro di loro nell’ambito di un’inchiesta sulla presunta vendita di gas naturale a Israele a prezzi inferiori a quelli di mercato.

Il sistema di Mubarak, quel nizam che i rivoluzionari volevano scardinare, ha così vinto definitivamente. La sentenza Mubarak, orchestrata da giudici che hanno sostenuto il golpe di al-Sisi, ha negato anche la responsabilità della polizia nelle violenze: una delle molle che ha innescato le proteste è stata proprio l’opposizione alle abitudini umilianti dei poliziotti nei quartieri popolari. Il 25 gennaio 2011, al Cairo e Alessandria i manifestanti attaccarono prima di tutto un centinaio di stazioni di polizia. Quando la situazione sul campo sembrò fuori controllo, la polizia scomparve, l’esercito decise allora di abbandonare Mubarak al suo destino. Ora però tutto è cambiato. I poliziotti sono tornati ad essere parte integrante del sistema che ha rovesciato gli islamisti.

«Stato contro terrorismo» o «terrorismo di Stato»?

Ha vinto invece il modello di successo proposto da al-Sisi, e inventato da George Bush jr. dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, di generica lotta dello «Stato contro il terrorismo», come se islamisti moderati e radicali fossero tutti uguali e ogni riferimento all’Islam politico sia artefice di nuovo terrorismo. Questo modello però anziché decapitare i movimenti radicali, li rafforza. I regimi militari, come quello di al-Sisi, hanno bisogno degli islamisti per giustificare la repressione politica. Ne è la prova il sostegno che i militari hanno ottenuto da parte dei salafiti di al-Nour, che dal giorno del golpe militare hanno appoggiato l’ex generale. Un esempio chiaro viene dalla guerra in corso nella penisola del Sinai e dalla sua mediatizzazione, che nulla ha da invidiare alla propaganda dello Stato islamico in Iraq e Siria (Isis) e alle sue presunte propaggini in Libia e altrove. Dopo il colpo di stato, la penisola del Sinai è diventata il teatro dello scontro tra milizie jihadiste e militari. Ma la guerra in corso nel Sinai non è come le altre. In pochi mesi i morti sono quasi 600, tra polizia, militari e civili, mentre centinaia sono i jihadisti uccisi. Lo scorso novembre è stato imposto il coprifuoco e lo stato di emergenza dopo l’ennesimo attentato che provocato la morte di 31 poliziotti. Al-Sisi ha decretato una zona cuscinetto al confine con Gaza, distruggendo, in perfetto stile esercito israeliano, migliaia di case degli abitanti del villaggio di Rafah.

E così nel gennaio 2014 per la prima volta nella storia militare egiziana, l’esercito ha attaccato un aereo combattente di una milizia jihadista e non di un Paese straniero. Da quel momento Tel Aviv ha appoggiato la «lotta al terrorismo» di al-Sisi, con l’assassinio in territorio egiziano di Ibrahim Awidah, leader di Ansar Beit al-Meqdisi (Abm), e il rapimento di Wael Abu Rida, leader del movimento palestinese della jihad islamica. Il Sinai è diventata la culla di gruppi jihadisti. Uno di questi è Abm, che ha rivendicato i principali attentati dinamitardi, kamikaze e contro ufficiali dell’esercito negli ultimi mesi. La novità è l’alleanza tra questi movimenti con giovani beduini e contrabbandieri. Agli occhi della popolazione locale, i jihadisti sembrano gli unici ad opporsi all’emarginazione delle popolazioni beduine. E così Abm ha strumentalizzato lo scontro tra esercito e islamisti della Fratellanza, aumentando a dismisura i suoi affiliati e proseliti, mentre i legami deviati tra Sicurezza di Stato e jihadisti del Sinai hanno attivato a orologeria (e continueranno a farlo) il terrorismo locale per accrescere a dismisura i poteri del nuovo faraone.

 

Il ritorno dei generali

Il 2014 in Medio Oriente ha segnato per questo il ritorno dei generali che con grandi probabilità consolideranno il loro potere nei prossimi anni. Con la repressione dei movimenti, dopo aver ordinato di sparare contro i manifestanti di Rabaa el Adaweya, il sit-in islamista che difendeva la legittima dell’ex presidente Morsi, al-Sisi è il primo politico ad avere un passato già così controverso da non poter ricoprire la carica di presidente della Repubblica senza suscitare sdegno e indignazione.

Ma di sicuro non è da meno il suo omologo siriano Bashar al-Asad, dopo 200 mila morti nella guerra civile che dilania il Paese, sembra il vero vincitore subliminale del golpe egiziano. La storia di Egitto e Siria è sempre stata legata a doppio filo. E forse proprio il successo di al-Asad nel mischiare le carte e indebolire le già frammentate opposizioni (anche qui i Fratelli musulmani sono la più grande forza di opposizione) ha segnato la definitiva sconfitta del tentativo della Fratellanza di consolidare il suo potere in Egitto. Ora al-Asad sembra agli occhi della coalizione internazionale che vuole sradicare Isis da Iraq e Siria una sorta di «nuovo alleato» a fortiori nella lotta al terrorismo. E così la repressione in Siria viene ancora una volta mascherata con la stabilità così come avviene in Egitto.

Un simile capovolgimento attraversa la Libia dove i golpisti vengono definiti dalla stampa mainstream come «governativi», senza considerare che sono ancora gli islamisti, che avevano ottenuto la maggioranza nel parlamento di Tripoli, dopo le elezioni del 2012, a controllare la capitale. Proprio da Bengasi è partito il tentativo di golpe dell’ex generale, critico verso Gheddafi, Khalifa Haftar, insieme ai miliziani di Zintan, che ha conquistato Bengasi ma non è riuscito ad entrare a Tripoli, nonostante il sostegno di al-Sisi. Dopo le elezioni del 25 giugno scorso, con una vittoria dei laici e la formazione del parlamento pro-Haftar a Tobruk, le milizie jihadiste hanno di nuovo conquistato posizioni. E così ora in Libia ci sono due governi, due parlamenti ed è in corso una guerra per procura che coinvolge Egitto e Qatar, di cui solo oggi l’Italia pare accorgersi, dopo le intenzioni espresse dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che vorrebbe inviare una forza di peace-keeping sotto l’egida dell’Onu nel Paese.

In seguito agli scontri che hanno distrutto l’aeroporto di Tripoli e causato oltre 200 morti, nel luglio scorso i gruppi radicali avevano dichiarato la nascita dell’«Emirato di Bengasi», dopo aver preso il controllo delle basi delle forze speciali della seconda città libica. Mentre i jihadisti hanno proclamato la loro roccaforte nella città orientale di Derna che ha ora un’organizzazione amministrativa autonoma a cui capo siede Abu al Baraa al Azdi, di origini yemenite. Questi gruppi hanno dichiarato la loro fedeltà ai jihadisti di Isis, attivi in Iraq e Siria. Dalla scorsa estate, Haftar ha lanciato almeno quattro offensive per sottrarre agli islamisti il controllo di Tripoli. Fin qui l’unico risultato è una Libia sempre più lacerata, sulla stessa terribile strada della Somalia, con 1700 milizie attive, e spaccata in tre: Cirenaica, Tripolitania e sud desertico che è terra di nessuno.

Al-Sisi condivide con Bashar al-Asad, Khalifa Haftar e anche con Saddam Hussein, le stesse radici nell’élite militare. E così non stupisce proprio come a schierarsi con Isis nella sua fulminea, ed esagerata dai media occidentali, marcia verso Baghdad dell’estate del 2014, siano stati proprio elementi dell’esercito di Hussein insieme ai burocrati del suo partito, il Baath, ancora una volta per il ritorno dello Stato che lotta contro il terrorismo, la cui incarnazione più chiara è nell’Egitto di al-Sisi. Il primo ad avvantaggiarsi di uno schema troppo rodato da non essere appetibile è stato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha sfruttato la mediazione egiziana nel conflitto a Gaza per prolungare i tempi per il raggiungimento di una tregua permanente tra israeliani e palestinesi dopo l’avvio dell’operazione «Margine protettivo», l’8 luglio scorso. E in ultima analisi per mantenere permanentemente l’assedio sulla Striscia di Gaza.

 

La repressione dei movimenti

Dal golpe in poi, al-Sisi ha imposto una roadmap che ha condotto all’approvazione di una legge che ha messo il bavaglio alle proteste, del ritorno dei processi militari contro i civili, di norme contro le ong, sono centinaia i giornalisti e analisti nelle carceri egiziane (l’ultimo caso clamoroso ha coinvolto Michel Dunne, ricercatrice del Carnagie critica verso al-Sisi, fermata dalle forze speciali al suo arrivo al Cairo), mentre non è più possibile fare politica negli atenei. Non solo, al-Sisi continua a governare facendo ricorso a decreti presidenziali che estendono a dismisura i suoi poteri. In questi mesi centinaia di esponenti dei Fratelli musulmani sono stati condannati a morte, molte pene sono poi state commutate in ergastolo. L’ultima condanna coinvolge 188 esponenti della Fratellanza, portando il numero di pene capitali a oltre mille. La repressione ha coinvolto anche la comunità Lgbt in Egitto. Il tentativo del regime militare è di reprimere qualsiasi spazio di libertà, inclusi i tradizionali luoghi di ritrovo degli omosessuali, ma finanche gli sparuti gruppi di atei che, secondo la retorica di regime, frequenterebbero alcuni bar del centro del Cairo. La retata più grave della polizia locale ha riguardato il bagno turco «Porta del mare», nel quartiere Ramsis. 33 uomini sono stati arrestati e condotti in prigione a gruppi, sulle camionette della polizia.

Ma il 2015 sarà l’anno delle elezioni parlamentari in Egitto (le settime dalle rivolte del 2011) che dovrebbero svolgersi a marzo. La nuova legge elettorale potrebbe aprire la strada al ritorno della Fratellanza, il maggior partito di opposizione, che potrebbero accedere ai seggi tra i candidati indipendenti. Ma sarà anche l’anno della prova definitiva del fallimento delle proteste del 2011 che hanno coinvolto Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen e Bahrain. Nessuno di questi cinque Paesi sta compiendo un genuino percorso di transizione democratica. La Tunisia è l’unica eccezione, ma si tratta sin qui solo di una buona pratica perché al ballottaggio per le presidenziali si sono scontrati due grandi vecchi, Caid Essebsi, appoggiato dai laici di Nidaa Tunis, e Moncef Marzouki, con il sostegno degli islamisti di Ennahda, entrambe figure attive nei regimi di Bourguiba prima e Ben Ali poi.

In ultima analisi, il successo di al-Sisi ha prodotto la restaurazione del vecchio regime, sta rafforzando il terrorismo in Egitto, e in Medio Oriente, e ha azzerato le aspirazioni democratiche nella regione. Esistono dei segnali che fanno pensare che queste manovre possano essere nei prossimi anni contenute o limitate. Per esempio, è vero che al-Sisi si è schierato al fianco di Israele e contro Hamas, ma il movimento di resistenza palestinese che governa Gaza è ancora vivo e vegeto. Non solo, nonostante i grandi sforzi, Khalifa Haftar non è ancora riuscito a riprendere Tripoli, mentre gli islamisti radicali di Isis non sembrano poi così forti come venivano descritti negli scorsi mesi. Infine, il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Qatar, appoggiato dal Cairo, potrebbe segnare una nuova inclusione della Fratellanza musulmana nelle istituzione pubbliche e la fine della repressione delle attività caritatevoli, ospedali, scuole e sindacalisti, vicini al movimento. Di sicuro a contare sul successo di uno scenario meno catastrofico per il Medio Oriente dell’annus horribilis che ci lasciamo alle spalle sarà il nuovo corso tra Stati Uniti e Iran sul dossier nucleare, che potrebbe arrivare nel 2015 dopo la storica fine del lungo contenzioso tra Washington e L’Havana. Questo potrebbe ridisegnare gli equilibri in Medio Oriente e ridimensionare lo strapotere saudita. Fin qui i segni in questo senso sono ancora troppo deboli e incerti. Tuttavia, è chiaro che fin qui al-Sisi e gli altri leader, che hanno consolidato o stanno tentando di conquistare il potere nei Paesi coinvolti dalle rivolte del 2011 con una brutale repressione, sono il principale pericolo per la stabilità del Medio Oriente e non la garantiscono, come le cancellerie di mezzo mondo hanno finto fin qui di credere.

(Foto di copertina di Thierry Ehrmann, tratta da Flickr)

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