Medio Oriente

L’Israele di Netanyahu e i fantasmi dell’apartheid denunciati da Burston

28 Agosto 2015

Impegnati ad osservare gli schizofrenici andamenti delle borse mondiali, le tragiche migrazioni dall’Africa verso l’Europa e le campagne elettorali USA, abbiamo messo da parte il conflitto israelo-palestinese. Pochi giorni fa, ispirato da un crescendo di avvenimenti a senso unico, Bradley Burston ha scritto per Haaretz un citatissimo articolo che ha fatto il giro del mondo:  It’s Time to Admit It. Israeli Policy Is What It Is: Apartheid . Ecco di seguito i principali fatti che hanno preceduto lo sfogo del giornalista israeliano nato negli USA:

3 marzo 2015, Tel Aviv. Netanyhau commenta l’affluenza alle urne da parte degli arabi che risiedono in Israele: “Lo stato di Israele è in pericolo se così tanti Arabi inziano a votare. Si tratta di un complotto delle sinistre occidentali”.

14 aprile 2015, Ginevra. Lo United Nations Human Rights Office sottolinea le ripetute violazioni di diritti umani nelle modalità di carcerazione e detenzione dei palestinesi da parte di Israele. L’ultimo caso è quello di Khalida Jarrar, un avvocato palestinese, imprigionato e detenuto senza processo dalle autorità israeliane.

31 maggio 2015, Gerusalemme. Il ministro della giustizia Ayelet Shaked si fa promotore di una legge che considera il lancio di pietre un atto terroristico. Qualche settimana fa, tuttavia, coloni israeliani (i coloni sono cittadini di Israele di religione ebraica che dopo la Guerra dei Sei Giorni si sono trasferiti in Cisgiordania e a Gaza, territori occupati in seguito di quella guerra del ’67) hanno lanciato pietre contro soldati israeliani e polizia che presidiavano territori della Cisgiordania. Netanyahu ha rassicurato i coloni lanciatori di pietre che avrebbe costruito loro centinaia di case nelle zone occupate.

12 giugno 2015, Gerusalemme. Il ministro per la sicurezza pubblica Gilad Erdan propone una legge che permette di nutrire con la forza prigionieri in sciopero della fame. Queste le parole di Erdan: “I prigionieri sono interessati ad utilizzare lo sciopero della fame come nuovo tipo di attacco terroristico minacciando così lo Stato di Israele. Non possiamo permettere che ci minaccino morendo nelle nostre prigioni”. La legge che equipara proteste non violente a terrorismo viene approvata.

14 giugno 2015, Gerusalemme. Il ministro Ayelet Shaked annucia l’intezione di tagliare finanziamenti di ogni genere a ONG che criticano l’operato del governo.

31 luglio 2015, Nablus, Cisgiordania. Degli estremisti israeliani incendiano una casa di civili. Tutta la famiglia viene uccisa; un banìmbino di 18 mesi muore; la madre riporta bruciature su 90% del suo corpo. Il governo israeliano decreta la che famiglia delle vittime non ha nessun diritto alla compensazione, consueto trattamento per ogni vittima del terrorismo, coloni israeliani inclusi.

5 agosto, 2015, Gerusalemme. Netanyahu  e il suo governo promovono il supporto finanziario ad ONG sospettate di appoggiare atti di terrorismo.

14 agosto  2015, Gerusalemme. Netanyahu decide di conferire a Danny Danon (attuale Ministro per la scienza e la tecnologia) l’importante incarico di ambasciatore alle Nazioni Unite. Danon è un esponenete dell’ala più conservatore del Likud, il partito nazionalista di Netanyahu. Famoso per la sua fervente opposizione della nascista dello stato di Palestina; per aver definito “a national plague” le richieste di asilo di profughi africani; per aver proposto, nel 2012, una legge per creare in Cisgiordania delle zone dove segregare palestinesi che non vogliono lasciare quel territorio, privandoli, di fatto, dei basici diritti umani; per proporre annessioni di territori “per decreto”.

16 agosto 2015, Tel Aviv. Avi Dichter, esponente del Likud ed ex capo di Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele, propone di costruire strade per palestinesi e strade per israeliani in Cisgiordania.

E’ sensata la condanna di Burston? ci sono gli elementi per parlare di apartheid israeliana?  A prima vista, e ad essere pignoli, mi verrebbe da obbiettare sulla scelta del termine. Metto in fila qualche ragione:

La più importante, forse, riguarda il fatto che stiamo parlando (ancora) di un paese con una reale dinamicità democratica. In Israele, infatti, ci sono parlamentari, giudici e militari arabi e cristiani. Molti attori economici sono apertametne contro l’impostazione conservarice e nazionalista che il Likud sta dando al governo del paese. La vita culturale è animata da molte persone di conclamato orientamento progressista. Esite una stampa critica e non filogovernativa. L’opposizione vive, parla e crede nel cambiamento “dal di dentro”.

Inoltre Israele ha sempre condannato pubblicamente l’aparheid sudafricana accollandosi al boicottaggio internazionale (è stato criticato tuttavia per non attuare un completo boicotaggio). Facendolo ha semplicemente aderito alla sua Dichiarazione di Indipendenza: “Lo Stato d’Israele […] assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”.

Un’altra ragione: il conflitto tra arabi ed ebrei è assai differente da quello che vedeva contrapposti neri e bianchi in Sudafrica. Nel caso mediorientale molte decisioni che possono apparire discriminatorie e razzista hanno, in realtà, delle motivazioni legate alla  sicurezza. In Israele, infatti, non è facile decidere dove finisca la sicurezza e inizi la discriminazione. Questo perchè il conflitto arabo-israeliano involve una complessità di scelta etica non presente nella sudafrica dell’apartheid. Laggiù, in Sudafrica, era semplice la scelta etica. Era molto chiara la collocazione del diavolo. Il problema era “solo” come agire per fermarlo. In Israele, al contrario, la scelta etica è complessa e sempre sfumata. A tratti impossibile. Sia palestinesi che israeliani hanno molte ragioni per fare quello che fanno. Le rivendicazioni e le aspirazioni degli uni non sono meno giuste di quelle degli altri. Entrambi hanno tradito la giustizia e la dignità umana; entrambi hanno tentato la pace e il dialogo. Sono le due facce della stessa medaglia. Come ha scritto Tondelli dopo l’attentato del 31 luglio scorso su queste pagine, la verità da quelle parti sta in un mezzo complicatissimo.

Per concludere con le ragioni contro l’uso del termine apartheid potrei dire che la scelta sembra, a prima vista, coerente con l’abitudine occidentale di raccontare quel conflitto attraverso la lente di una perenne semplificazione ideologia. Nei suoi commenti spesso urlati e poco ragionati l’Occidente ha sempre trasportato su quel conflitto i suoi pregiudizi, le sue paure, i suoi desideri. Difficile dar torto a Matti Friedman, giornalista e scrittore esperto di cose israeliane, quando fa notare l’esasperata attenzione dei media contro Israele a dispetto del quasi mutismo su altri fatti disumani. Parlando dei conflitti dell’estate 2014, scrive: “Le testate e le agenzie di stampa hanno deciso che questo conflitto è più importante, per esempio, delle più di 1.600 donne uccise in Pakistan lo scorso anno (271 dopo essere state stuprate e 193 delle quali bruciate vive), della cancellazione permanente del Tibet da parte del Partito Comunista Cinese, della carneficina in Congo (più di 5 milioni di morti a partire dal 2012) o nella Repubblica Centrafricana e delle guerre di droga in Messico (con un numero di morti tra il 2006 e il 2012 uguale a 60.000), per non parlare di conflitti nessuno ha mai sentito parlare negli angoli oscuri della dell’India o della Thailandia. Essi credono che Israele sia la storia più importante del mondo o giù di lì”.

Per concludere: come possiamo parlare di apartheid e non accorgersi che Israele fa parte di quelle tante minoranze che l’Islam non accetta e vuole annientare? Come possiamo chiudere gli occhi sul fatto che le forze in ascesa in medioriente non sono la democrazia e la modernità; ma piuttosto delle rivali concezioni dell’Islam unite dal sogno politico, inseguito tramite la violenza, di controllare la regione al fine di confrontarsi con l’Occidente.

Sulla base di tutte queste ragioni mi semba corretto rifiutare l’espressione apartheid. Essa pare maldestra e partigiana. Ma scrutando dentro la complessità da cui parlavamo sopra non possiamo fermarci qui.

Quando Burston parla di apartheid, infatti, vuole cogliere dei tratti comuni, delle somiglianze. Usa una parola evocativa per spronare l’indignazione. Non si tratta di una definizione accademica e scolastica ma del tentativo di evidenziare intollerabili ingiustizie apertamente perpetrate. Ingiustizie che covano nell’alveo di una concezione dello Stato di Israele che è necessario rigettare ma che, inesorabilmente, perpetua se stessa almeno dal 1996, cioè dalla prima elezione di Bibi Netanyahu come Capo del governo. In questa idea di Israele, quella nazionalista e neocon del Likud, non possiamo non riconoscere il carattere razzista e discriminatorio di certe politiche. Non possiamo nasconderci dietro le (pur vere) ragioni sopra elencate.

Il problema focale è ben espresso dalle parole di Burston: ” Noi (israeliani) siamo quello che abbiamo creato. Noi siamo quello che facciamo e le ingiustizie che arrechiamo in migliaia di modi a milioni di persone”. Burston sta dicendo che ad oggi non è più possibile distinguere tra le politiche di Netanyahu e la sua percezione dall’esterno. Infatti, se prima del 1996 il sionismo neocon del Likud era minoritario nel paese, ora è diventato la versione regnante.Versione che attrae consensi nei partiti conservatori di tutto il mondo, sopratutto negli USA.

In questa visione del sionismo, di cui Netanyahu è il leader carismatico, la guerra è lo strumento supremo per imporre la pace.  Netanyahu ha convinto di questo il suo popolo (la maggioranza di esso). Egli sta realizzando con successo quello che Carl Schmitt teorizzava agli inizi del secolo scorso: garantire la sicurezza dello Stato e dell’ordine costituzionale è il primo obbligo del politico, sopratutto nel momento in cui l’ordine e l’esistenza dello Stato sono messi in pericolo. Al sovrano tutto è permesso. Non è un caso che nella retorica propagandistica di Natanyahu il pericolo di annientamento da parte del nemico sia il fulcro del messaggio. Israele e gli ebrei sono in pericolo costante. Ogni apertura al mondo arabo è una minaccia per l’esistenza dello Stato. L’unica logica sensata è quella del Muro e delle bombe.

E’ dal 1993 che Netanyahu propaganda questa idea conservatrice e decisionista del sionismo. Da quando pubblicò A Place Among Nationsil suo programma ideologico-politico. Già allora la questione fondamentale era primariamente ideologica, forse addirittura mitologica: non esistono due identità, una israeliane e una araba. Quella araba è solo un’invenzione per giustificare l’annientamento di Israele. L’obbiettivo era quello di focalizzare l’attenzione verso le minaccie ad Israele (vedi oggi le posizioni sul nucleare iraniano) e distogliere l’attenzione dall’ormai fallimentare processo di trattative per la pace.

Negli anni Netanyahu è riuscito non solo a far diventare maggioritaria nel paese questa ideologia ma ha ottenuto notevoli successi politici in consonanza con essa. Su tutti quelli di rendere solida la presenza israeliana in Giudea e Samaria (termini che la destra israeleiana usa per definire la Cisgiordania) e segregare i palestinesi in zone formalmente autonome ma circondate da territori controllati dello Stato ebraico. Questi risultati sono la conseguenza di politiche se non antisemite certamente discriminatorie. Politiche che non aiutano alla pace ma fomentano l’odio.

Apartheid è un termine con una carica emotiva elevata. Pur sembrando a prima vista scorretto e fazioso, la sua applicazione al caso israelo-palestinese ha delle ragioni. La prima fra tutte è quella di denunciare e combattere la concezione del sionismo che il Likud ha reso maggioritaria. E’ infatti difficile negare che tanta parte delle inziative governative di Israele sono mosse da quello che Burston chiama “two sets of books. One for Us, and one to throw at Them”.

Ci chiedavamo se i fantasmi dell’apartheid aleggiassero sopra Israele. Difficile affermarlo con certezza. Ancor più difficile è negarlo.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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