Medio Oriente
L’Egitto in guerra da solo per annettersi un pezzo di Libia
Il presidente Abdel Fattah al-Sisi guarda alla Libia come a un’estensione territoriale egiziana, dopo la fine del regime del colonnello Muammar Gheddafi. È questa la chiave di lettura per capire gli attacchi egiziani contro i jihadisti di Sirte e Derna, al fianco dell’aviazione libica filo-Haftar, ma anche contro i miliziani che si rifanno al cartello Alba (Fajr), la coalizione nata per fermare l’avanzata del generale Khalifa Haftar – di cui sono noti gli storici rapporti con la Cia – la scorsa primavera, nelle città di Gharian, Sabratha, Zawiya, Zuwara e Misurata.
È ancora una volta una strage di copti a servire su un piatto d’argento ad Abdel Fattah al-Sisi l’occasione per intervenire. Ma questa volta non è in gioco la tanto sognata «stabilità» in Egitto, compromessa dai «terroristi che odiano i cristiani» e da quel settarismo tra copti e musulmani che da Embaba a Moqattam ha frenato le aspirazioni dei movimenti rivoluzionari a favore del ritorno dei militari, ma l’autodeterminazione della Libia.
È vero che le immagini del sangue dei 21 uomini egiziani sgozzati che macchia le acque del Mediterraneo è terribile ma la reazione di al-Sisi quanto meno delinea la realizzazione di un sogno che l’ex generale covava dal giorno del colpo di stato militare del 3 luglio 2013: l’annessione della Cirenaica all’Egitto o quanto meno l’esportazione del modello egiziano di lotta al terrorismo nel Paese vicino. Questo grave episodio, perpetrato dai jihadisti che hanno parzialmente conquistato Sirte e annunciato dagli altoparlanti della loro macchina mediatica di essere «a sud di Roma», è bastato perché la guerra per procura che va avanti in Libia dal giorno in cui per ben cinque volte il golpista Haftar ha tentato di prendere Tripoli, senza mai riuscirci, venisse annunciata al grande pubblico. Egitto ed Emirati Arabi Uniti da mesi forniscono le basi per raid, concedono piloti, aerei e rifornimento in volo per attacchi mirati in Libia. E lo fanno sempre al fianco dei militari, guidati dal premier Abdullah al-Thinni, del parlamento di Tobruk che ormeggia su una nave al largo della Cirenaica, e dei miliziani di Zintan, contro gli islamisti asserragliati nel parlamento di Tripoli.
Centinaia di persone si sono riversate per le strade del villaggio di al-Our, nel governatorato di Minya in Egitto, per piangere i 21 copti brutalmente uccisi a Sirte. Nei video della televisione di stato egiziana si vedono mogli e madri che chiedono vendetta per i loro figli. Mentre al-Sisi, cavalcando l’onda emotiva dell’ultima ora, ha fatto visita al Papa copto Tawadros II per far sentire la sua vicinanza ai cristiani egiziani. Rappresentanti della giunta militare parteciperanno ai funerali delle vittime a Minya e il primo ministro Ibrahim Mahlab ha promesso 10 mila euro ad ognuna delle famiglie delle vittime come compensazione del grave crimine subito. Ci ha pensato poi il magnate di Orascom, Naguib Sawiris a esaltare la dura reazione delle forze egiziane. Sawiris ha parlato di «guerra contro l’umanità e la civiltà». L’imprenditore copto ha definito gli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi, i cui sermoni hanno echeggiato dalle radio di Sirte conquistate dai jihadisti, come «soldati di Satana e nemici dell’umanità».
I raid egiziani di ieri in Libia e la reazione dei jihadisti dimostrano un’altra cosa: l’incredibile flusso di cittadini egiziani in territorio libico. Come rappresaglia, dopo l’attacco, sarebbero stati rapiti almeno 35 egiziani in zone controllate dai radicali. Da mesi si susseguono uccisioni e rapiti di cittadini egiziani in Libia. Siano essi esponenti dei Fratelli musulmani, scampati alla repressione di al-Sisi, o semplici contadini e operai in cerca di fortuna in Libia, o peggio ancora, poveri migranti, incappati nelle maglie dei miliziani per poter affrontare la loro traversata: la Libia oggi pullula di egiziani. Per questo non stupisce la presa di posizione del parlamento di Tripoli, controllato dagli islamisti del premier Omar al-Hassi, vicino al cartello delle milizie anti-Haftar Fajr (Alba), appoggiate dai miliziani Scudo di Misurata e dal Qatar, che ha lanciato un ultimatum di 48 ore agli egiziani perché lascino la Tripolitania se vogliono evitare rappresaglie e ha definito l’intervento di al-Sisi «un atto di aggressione».
L’attacco egiziano, che solo a Derna avrebbe provocato almeno sette morti civili e 40 vittime tra i jihadisti, è stato subito applaudito dalla Russia di Vladimir Putin che ha visitato il Cairo proprio nei giorni scorsi promettendo di fornire all’Egitto tecnologia nucleare e ha fatto sapere che Mosca «è pronta a cooperare contro tutti gli aspetti della minaccia terroristica». Dal canto suo, il presidente francese François Hollande, che ha sentito al-Sisi, ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non solo, l’Egitto proprio ieri ha firmato un accordo per l’acquisto dalla Francia di 25 caccia, una fregata e missili per un totale di 5,2 miliardi di euro. Con il contratto, firmato al Cairo, l’Egitto diventa il primo Paese straniero ad acquistare i caccia francesi Rafale. L’accordo rientra nel tentativo del governo egiziano di bilanciare il parziale congelamento degli aiuti militari Usa, stabilito dal Pentagono dopo il golpe del 2013.
La coalizione pro-Sisi in Libia si andrà delineando già domani. Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shukry incontrerà il Segretario di Stato John Kerry e l’Alto rappresentante per la politica Estera dell’Unione europea Federica Mogherini a Washington. Gli Usa hanno definito «spregevole e vile» l’attacco contro i copti, contro l’aggressione sono arrivati anche gli strali della moschea di al-Azhar e manifestazioni di cordoglio dei familiari delle vittime nella città di origine di Mynia, nell’Alto Egitto.
Il premier italiano Matteo Renzi ieri ha invece frenato gli entusiasmi bipartisan dei politici italiani. «Non è tempo di interventi militari»: ha fatto sapere Renzi. L’ambasciata italiana è stata chiusa la scorsa domenica e decine di connazionali sono rientrati con un C-130 dell’Aeronautica, mentre l’Eni ha comunicato che solo il personale essenziale è rimasto nel Paese. Per un motivo ben preciso: questa guerra non sarebbe un’azione per facilitare la fine del conflitto tra militari e islamisti in Libia, o per fermare i jihadisti, ma sarebbe un intervento pro-Sisi (più di quanto non sia pro-Assad la coalizione anti-Isis in Siria, dove un cambiamento di regime non ci è mai stato). Il che ha una precisa conseguenza per l’Italia: un intervento al fianco di al-Sisi in Libia darebbe il via libera all’«invasione» egiziana del Paese e il colpo di grazia a qualsiasi «privilegio» italiano in tema di contratti petroliferi, controllo dei flussi migratori e gestione dei gruppi jihadisti.
Eppure la Libia è già un paese in guerra, dove sono continui i black-out energetici e la gente ha fatto incetta di beni alimentari mentre le banche non distribuiscono banconote. Non è la guerra che viene rappresentata dai media mainstream italiani di Isis a Sirte, ma quella delle centinaia di milizie, armate fino ai denti dopo aver svaligiato le munizioni di Gheddafi grazie ai disastrosi attacchi della Nato del 2011. È la Libia che da quattro anni va avanti a fatica tra elezioni che si susseguono, a colpi di leggi pro o anti-gheddafiani, e che in ultima analisi non ha ancora digerito la fine orribile del Colonnello e non ha dimenticato la sua profezia, che si auto-avvera, del caos jihadista e dell’esasperazione a fini politici delle divisioni tribali che avrebbero fatto seguito alla sua destituzione violenta. In questa fase, l’unica soluzione plausibile può venire dalla continuazione del negoziato tra le fazioni libiche, in corso ormai da settimane tra alti e bassi a Ginevra, con la mediazione del rappresentante delle Nazioni Unite, lo spagnolo Bernardino Leon. E lo sa bene l’ambasciatore libico a Roma, Ahmed Safar. I «due governi di Tripoli e Tobruk» devono «unirsi contro lo Stato islamico», è l’opinione di Safar. Forse nessuno lo ascolterà.
Devi fare login per commentare
Accedi