Medio Oriente
L’anno che verrà
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Cara Susan ti scrivo, così mi distraggo un po’…
Con l’avvicinarsi del nuovo anno non sono riuscita a trattenermi nel citare una delle mie canzoni preferite di Lucio Dalla.
Come avrai capito, anche leggendo il mio libro, sono ossessionata dalla musica: italiana, straniera, pop e rock.
Per questo ho chiamato il mio romanzo “Life on Mars”, non solo per omaggiare David Bowie ma anche perché, per descrivere la vita in Israele, non mi viene in mente nessun’altra metafora se non quella che è come vivere “su un altro pianeta”.
Se qualcuno arrivando da un altra galassia dovesse atterrare per caso in questo posto, infatti, come farebbe a capire tutte le contraddizioni di un paese in cui ci si può sposare soltanto con rito religioso ma la convivenza tra una coppia gay è sufficente per garantire il permesso di soggiorno a chi dei due non è cittadino israeliano?
Come spiegare che a Gerusalemme gli ultraortodossi girano in cappotto e colbacco anche ad agosto mentre a Tel Aviv si gira in infradito e costume da bagno anche a dicembre?
Quando racconto che il giorno in cui ho messo al mondo mio figlio (con un cesareo) in sala parto al mio fianco c’erano il chirurgo che mi ha operato, ebreo israeliano, il capo sala, arabo israeliano, e l’anestesista russo, neo-immigrato, normalmente mi chiedono se si tratta dell’inizio di una barzelletta, quando invece qui è ordinaria routine.
Tuttavia non è questa la ragione per cui ho iniziato a scriverti. Ti scrivo perché per me ogni anno che arriva è sempre carico di numerose aspettative, soprattutto nei confronti di me stessa. Per esempio, quest’anno ho deciso che comincio a studiare giapponese.
E tu, cara Susan?
Quali sono i tuoi propositi per il 2018 che sta arrivando?
From: susan dabbous
To: fiammetta martegani
Cara Fiammetta,
Se un marziano sbarcasse su questa strana terra forse potrebbe pensare che gli umani vivono separati in gruppi, come pianeti, che non si incontrano mai. Gravitano, pregano, intorno alle loro orbite, al loro Dio. Ogni tanto, raramente, si fondono, per scoprirsi praticamente quasi uguali, ma di base evitano il contatto per evitare lo scontro, il Big Bang, che a cadenza tristemente ripetitiva, inesorabilmente, accade.
Mi piace poi pensare che un marziano, in quanto abitante dell’universo, conosca Dio meglio di noi umani. Potrebbe ergersi a giudice super partes e dire: “No, il Dio di cui blaterate voi non è quello che conosciamo noi nel resto nell’Universo. Non comanda guerre né assegna pezzettini di territori sui cui scannarsi”.
Forse le guerre esistono anche negli altri pianeti, ma magari le chiamano con il loro nome, tipo: guerra per l’acqua, guerra per la luce, guerra per il pane. Un marziano ci metterebbe a nudo, ci rivelerebbe che l’ipocrisia è una prerogativa tutta umana.
Per questo non ti voglio mentire e ti dico che non ho buoni propositi per il 2018, perché non credo nella pianificazione: sono una che naviga a vista. Tutti i risultati che ho raggiunto nella mia vita, finora, li ho ottenuti non puntando a un obbiettivo ma puntando alla libertà dall’obbietivo, ovvero, avere una vita senza obiettivi.
Ho concluso la scuola perché la vivevo come un carcere. Ho finito l’università perché, a un certo punto, sapevo che, per quanto, interessante, non rispecchiava il mondo reale. Poi mi sono scelta un lavoro che si crea e distrugge ogni giorno: il giornalismo, dove pianificare è impossibile e l’abilità sta tutta nell’inseguire, capire e decodificare ciò che è successo. Il mio pragmatismo, tuttavia, non mi impedisce affatto di apprezzare il tuo idealismo. Leggendo il tuo libro ho capito che sei una persona ottimista, positiva, propositiva. Sei anche una che si pone sfide ambiziose e intelligenti. Forse è per questo che hai deciso di vivere in un territorio dove di positività ce n’è davvero poca. Sei una vera forza della natura.
A questo punto Lucio Dalla direbbe “ ti scrivo così mi riscaldo in po’”. Scriverti ha scaldato questa gelida notte inglese. Ti auguro una buona giornata e un bel fine 2017.
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Cara Susan,
mi incuriosisce molto il fatto che, leggere il mio romanzo, ti abbia fatto pensare che io sia una persona “ottimista, positiva, propositiva”.
Prima di tutto perchè, trattandosi di un romanzo, il carattere che tu descrivi non è il mio ma quello di Zoe, la protagonista, la quale, mi rendo conto solo ora, è evidentemente molto piú positiva della sua autrice.
Anche nel mio caso, come nel tuo , la maggior parte delle scelte che ho fatto non sono state vere e proprie “decisioni”, bensì, in un certo senso, è stata la vita a decidere per me, a partire dalla scelta di vivere in questo folle paese.
Tutto è cominciato per via del mio Dottorato in Antropologia. Doveva trattarsi solo di un semestre. All fine non sono piú tornata. Ma non sono stata io a scegliere, è stata la vita: prima la borsa di Post-Dottorato, poi conoscere Udi, il mio compagno, infine la nascita di Enrico, che, almeno per ora, abbiamo deciso di far cescere qua, perchè se mai un giorno dovessimo tornare in Italia o spostarci altrove, vogliamo che di Israele gli rimangano i ricordi piú belli, come quelli dell’asilo e dei corsi di challa, il pane intrecciato che si prepara per Shabbat, invece che i tre anni di servizio militare obbligatorio.
Quindi, come vedi, sono tutt’altro che ottimista e positiva. Propositiva, forse, lo sono, e infatti ho deciso di iniziare a studiare giapponese a partire dall’anno che sta per cominciare perchè per me il Giappone, con i suoi colori tenui e i suoi ritmi Zen, rappresenta esattamente l’opposto della confusione e della nevrosi di Israele e del Medio Oriente.
Per me, cara Susan, il Giappone, ovvero l’estremo Oriente, rappresenta il luogo in cui ritirarmi quando sarò in pensione e potrò dedicarmi, finalmente, soltanto alla mia vera passione, l’Ikebana, quando Enrico ormai l’esercito l’avrà finito e forse non vivrà piú in questo strano pianeta ma magari, chi lo sa, in una bella capitale europea o forse in una sperduta isola del Pacifico. In fondo è stato concepito a Bali, per cui, mi auguro si porti sempre dentro un piccolo pezzetto di “saggezza orientale”.
From: susan dabbous
To: fiammetta martegani
Cara Fiammetta,
il dibattito, eterno, tra la vita che sceglie per noi o noi che ci scegliamo la nostra vita, rimanda ovviamente a riflessioni più generali di natura psicologica. Magari seguiamo semplicemente il nostro karma, per vederla con un’ottica più orientale, tanto per rimanere in tema. La verità secondo me sta nel mezzo. Ci sono accadimenti accidentali, o fortuiti, che capitano mentre noi siamo già predisposti, mentalmente o “geograficamente”, ad accettarli. E poi c’è quella “calamita” che ti attira verso certi determinati luoghi e non ad altri. Nel mio caso la calamita ha attecchito a Roma, Damasco, Palermo, Beirut e Gerusalemme: le mie città preferite, i luoghi dove mi sento a casa. Ma al tempo stesso, c’è anche il “rovescio” della calamita, con la sua forza altrettanto forte e repulsiva. Sarà un caso che ho sposato un inglese? Simpatico, caloroso, ma pur sempre inglese. Con lui mi sono agganciata ad una cultura ordinata, rispettosa e riservata, in totale contrasto con il disordine che regna nei luoghi dove ho vissuto finora. Così ho trovato un equilibrio che rende sopportabile qualsiasi cosa. Spesso maledico tutto e tutti e mi dico: tanto prima o poi andremo a vivere in un paese “civile”.
Puntualmente, dopo una settimana in Inghilterra, sono ben contenta di fare le valige e tornare al mio caos. E tu, quanto resisteresti nel tuo bel Giappone?
Zoe, la protagonista del tuo libro sembra incapace di stare lontano da Tel Aviv per più di poche settimane….
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Hai ragione. Zoe non riusciva a schiodarsi da Tel Aviv per più di poche settimane. Era stregata, ancor più che calamitata: da Tel Aviv, da Israele, e dal Medio Oriente.
Ma erano anche i suoi primi anni qui, quando non aveva ancora scoperto il “rovescio” della calamita: quello che io, non Zoe, chiamo “il lato oscuro” del Medio Oriente, con tutta la consapevolezza di quanto sia pericoloso utilizzare queste etichette “orientaliste” – “conradiane” nei confronti di qulasiasi luogo, sia esso Israele, il Giappone, o persino la stessa Italia, quando la si riduce a stereotipi o generalizzazioni.
Ma quando parli dell’effetto “calamita”, capisco perfettamente quello che intendi. Le mie calamite, nel tempo, sono state: Sarajevo, Sidney e Tel Aviv.
Ripensandoci, mi viene in mente che, secondo Raymond Carver, a volte capita che pur nascendo nel paese dei propri genitori, in cui tutti parlano la tua lingua e appartengono alla tua stessa cultura, a un certo punto, inspiegabilmente, si comincia a sentirsi stranieri nella propria terra e si avverte il bisogno irrefrenabile di cominciare un viaggio verso la propria “vera patria”, pur non sapendo quale sia, e non è neppure detto che esista davvero.
O forse, come diceva G. K. Chesterton, “ci sono due strade per tornare a casa. Una è fermarsi lì. L’altra, viaggiare per tutto il mondo fino a tornare allo stesso luogo”.
Buon anno, Susan, che sia un 2018 ricco di sorprese, incontri, e nuove strade da tracciare.
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