Medio Oriente

A vent’anni dall’assassinio di Rabin, resta solo una piazza vuota

25 Ottobre 2015

Il 24 ottobre cadeva il ventesimo anniversario in data ebraica (12 Cheshvan) dell’assassinio di Yitzhak Rabin. La data del calendario civile è il 4 novembre. In 3.000 si sono ritrovati a Tel Aviv, in Piazza Rabin – nel 1995 si chiamava Piazza Malchei Israel, dove lo statista fu assassinato – a dire che il governo Netanyahu è fallito. Un po’ pochi. Complessivamente, quei 3000 rappresentavano l’ala di estrema sinistra del 1995, quelli che sostenevano Rabin solo perché non c’era nessun altro. In breve la piazza di Rabin in questi venti anni si è dissolta. Decisamente un messaggio di solitudine.

Limitandoci a osservare il quadro della discussione politica, venti anni dopo quella morte il quadro è il seguente: il primo ministro attualmente in carica (allora all’opposizione e in prima fila per auspicare la “rimozione” di Rabin), che fa un uso politico del passato – un tempo, prima che lo storico François Hartog coniasse questo termine, si sarebbe detto un uso strumentale della storia; un sentimento pubblico diviso e lacerato tra disperazione, determinazione, terrore e opposizione; inesistenza sulla piazza politica di una leadership capace di proporre un’alternativa.

Si possono invocare certamente molte cose: la situazione internazionale cambiata, la dimensione e del conflitto, la lacerazione di molte realtà statali intorno, gli equilibri locali (tanto per elencare alcune questioni: Iraq, Turchia, Siria, Libano, senza dimenticare Isis) il quadro internazionale. Resta un fatto. Vent’anni dopo la conflittualità tra una dimensione politica che internamente è propensa a una soluzione politica del lungo confronto con i palestinesi, ma in realtà oltre loro, con una parte delle realtà nazionali arabe intorno, e a una che invece ritiene quella prospettiva non praticabile (anche se a parole non la esclude) è decisamente ancora sul campo. La differenza è che la prima non ha un leader o una figura che la incarni. La seconda sì. Nel vuoto di politica è ovvio che sia la seconda a prevalere.

Forse sarebbe il caso di chiedersi perché è andata così. Dipende da vari fattori, sia esterni sia interni. Ne elenco alcuni.
(1) C’è un pezzo di mondo politico che fuori da quell’area geografica, e segnatamente in Europa, che pensa che la soluzione ottimale sarebbe uno Stato, due popoli, molte culture. La realtà non va in quella direzione. La mia sensazione è che oggi la soluzione due popoli, uno Stato, sarebbe solo il rovescio speculare della situazione attuale. Non mi piace la situazione attuale, che a mio avviso si caratterizza per un principio di “democrazia etnica” ma nemmeno il suo rovescio mi sembra auspicabile.
(2) La dinamica BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele), non aprirà nessuna contraddizione: non foss’altro perché la realtà dei boicottaggi nella storia ha avuto sempre due ipotesi: da una parte, non ha scalfito il consenso interno, anzi lo ha rafforzato. Dall’altra, quando lo ha scalfito, ha premiato i poteri forti della parte avversa. Nella storia il boicottaggio non ha mai premiato le forze democratiche. Ha sempre avvantaggiato le forze radicali che non cercano il compromesso o la coabitazione, ma il proprio predominio.
(3) Tutti i processi di pacificazione in quell’area quando sono avvenuti sono stati l’effetto di un atto iniziale di rottura che partivano da una condizione di forza e di autorevolezza di una leadership. Non c’era alcun movimento popolare, di massa che li abbia indotti. Al contrario. I protagonisti hanno sempre pagato un prezzo altissimo. Anwar al-Sadat è stato il primo, Rabin è stato il secondo.

Riflettere su Yitzhak Rabin oggi, a venti anni, dalla sua morte, soprattutto nella solitudine o nel vuoto di quella piazza (a differenza della folla che era presente il 4 novembre 1995 su quella stessa piazza) e al vuoto del mondo politico che allora prese un aereo per essere presente alla cerimonia di sepoltura , il 6 novembre mattina – non significa solo rievocarne la figura, ma comprendere come nella sua strada più volte la politica si sia trovata di fronte al bivio di scegliere in nome della propria coerenza di pensiero e dunque di confliggere con la realtà o di provare a modificare profondamente la realtà che si riceveva in eredità.

La storia del Medio Oriente è fatta di figure che hanno riassunto complessivamente le date strutturali di quell’area. Figure che hanno pagato in solitudine la propria battaglia di coerenza, o la propria incertezza. Re Abdallah di Giordania è stato questo in un’epoca che a noi appare lontana ma che al di là del giudizio complessivo sulla sua persona appariva come un uomo contemporaneamente sospeso tra permanenza dei propri privilegi e comprensione che le trasformazione del Medio Oriente dovevano essere accolte e, comunque non respinte. Anwar al-Sadat è stato questo.

Con Rabin dunque non si esprime una personalità irripetibile, ma una possibilità di essere della politica: quella di scommettere con la storia, di farla saltare in un suo “luogo comune” di rimetterla in cosa, grazie ad una mossa della torre del cavallo della politica.

Ma è proprio questo che oggi non c’è la capacità di fare una proposta di rottura e, al temo stesso, di assumere su di sé la dimensione della responsabilità di quella scelta, di far stanare il senso comune dalla propria paura. E forse non c’è, stando dal lato di Israele, perché quello che è cambiato in questi circa cinquat’anni dalla guerra dei Sei giorni è anche la percezione di vivere uno spazio.

Tre quarti della popolazione israeliana attuale è nata dopo il 1967. Quando ragioniamo di confini del 1967 fa fatica a vedere dove stiano, li ha conosciuti, girati, visti senza una soluzione di continuità con il territorio pre ’67. Non sto dicendo che sia impossibile ritornare a quei confini. Sto solo dicendo che per rendere possibile quella possibilità non basta pensare una lista di cose da fare. Va pensata una e proposta una visione politica. Per pensarla, per proporla e renderla possibile non ci va della lenta pedagogia. Ci va una condizione di obbligo, di capacità di una leadership politica di assumere su di sé una responsabilità e di trasformare le condizioni di obbligo in opportunità. Lì si misura la dimensione e la caratura di una leadership politica. Che non c’è.

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