Medio Oriente

La guerra spiegata ai bambini

3 Febbraio 2018

From: susan dabbous

To: fiammetta martegani 

Cara Fiammetta,

Questa settimana ho parlato di guerra ad un pubblico di bambini e mi sono emozionata come non mi accadeva da moltissimo tempo. Saranno state quelle guance piene, quegli occhi spalancati che mi guardavano con innocenza e rispetto per cui, appena ho preso la parola, in un solo secondo, è venuto giù quello scudo costruito in dieci anni di carriera.

Col microfono in mano, la voce spezzata e un nodo in gola, ho pronunciato le prime parole: “Non diamo per scontato la pace”. Avevo alle spalle l’immagine di un bambino siriano di cinque anni con una sigaretta in bocca e un fucile in mano.

Davanti a me, nella piazza davanti alla Cattedrale di Nola, circa duemila bambini accompagnati da genitori attenti alla sofferenza altrui. Ogni anno l’Azione Cattolica vi organizza una Marcia per la Pace.

Quest’anno hanno voluto invitarmi per parlare di bambini negli scenari di guerra, affinché anche i piccoli italiani che vivono nel conforto delle loro case accoglienti conoscano le condizioni di vita dei loro coetanei in Siria o nei campi profughi dove i piccoli rifugiati imparano presto a rinunciare ai propri sogni.

Ho pensato che, per quanto difficile, tutti i bambini dovrebbero imparare a empatizzare con chi soffre. Questo significherebbe, ad esempio, far conoscere ai bambini israeliani come vivono i loro coetanei a Gaza, e spiegare anche ai piccoli arabi (non solo palestinesi) come vissero i bambini ebrei nei campi di sterminio.

Ovviamente, senza utilizzare immagini violente, bensì attraverso parole, testimonianze e storie, si potrebbe davvero insegnare ai bambini a capire cosa accade agli altri quando sono vittime di ingiustizie.

I bambini, infatti, tendono, istintivamente, a vedere più i punti in comune che le differenze con gli altri bambini, anche se molto distanti geograficamente.

Tu cosa ne pensi?

From: fiammetta martegani

To: susan dabbous

Carissima Susan,

mentre ti leggo mi viene subito in mente il bellissimo romanzo di Daniella Carmi “Samir e Yonathan”, adattato magistralmente in monologo teatrale da Yoge Yefet, che racconta la storia di due bambini, uno israeliano e uno palestinese, costretti, a causa della malattia, a dover condividere la stessa stanza di ospedale per lungo tempo.

Trovandosi l’ospedale in Israele, per la famiglia di Samir, che vive nei Territori Palestinesi, risulta molto complicato riuscire ad andare a trovarlo, a causa di tutti i problemi che si incontrano ogni qualvolta si cerca di attraversare un posto di blocco israeliano.

È quindi Yonatan, grazie alla sua passione per le stelle, ad intrattenere le notti insonni di Samir, i cui incubi lo riportano costantemente agli anni dell’Intifada, in cui il fratello minore perse la vita nel corso dell’esplosione di un autobus.

Tutti e due aspettano con impazienza l’arrivo di un grande professore americano “from Chicago!” in modo che dopo essere stati operati Yonatan possa finalmente portare Samir con sé a visitare il pianeta Marte.

Purtroppo si tratta solo di una storia, nel corso della quale, tuttavia, i due personaggi hanno modo non solo di conoscersi meglio, ma di conoscere finalmente, e senza il filtro degli stereotipi e della propaganda da ambo le parti, non solo l’“altro” ma un intero popolo.

Questa storia, tra l’altro, non si allontana così tanto da alcuni dei programmi portati avanti dal Centro Peres per la Pace i cui diversi progetti, da quello volto a organizzare un campionato di calcio tra squadre di bambini di entrambe i popoli a il programma Saving Children, predisposto per la presa in cura di bambini di Gaza negli ospedali israeliani, é stato pensato proprio per permettere non solo ai bambini, ma anche ai genitori, di far conoscere meglio, e faccia a faccia, dottori, personale medico, altri bambini e altri genitori, in modo da superare tutte quelle barriere che prima ancora che fisiche sono soprattutto culturali.

Qualcuno potrà obiettare che si tratta solo di una goccia d’acqua in un oceano. Ma si deve pur cominciare da qualche parte, no?

From: susan dabbous

To: fiammetta martegani 

Cara Fiammetta,

credo che non una goccia, ma l’intero mare Mediterraneo, non basterebbe per riempire il vuoto morale che si è creato tra la crisi economica del 2008 e le primavere arabe del 2011. Non so tu, ma io non ricordo nessun politico italiano parlare di rischio di estinzione della “razza bianca”, quando ero bambina.

Ricordo il grande messaggio, che arrivava tramite le scuole e la televisione, di accogliere le famiglie bosniache in fuga dalla guerra. Ricordo temi e poesie dedicate ai bambini che soffrivano. Cose che potrebbero sembrare sentimentalismi inutili in un contesto culturale normale, ma oggi, vedendo gli effetti sulla società della mancata sensibilizzazione alle sofferenze altrui, vengono i brividi.

C’è un pericoloso stato di abbruttimento generale che ha come fine ultimo il benessere personale a tutti i costi. Come se dovessimo tutti aspirare a diventare dei robot omologati senza sentimenti profondi, come se la sofferenza non fosse sintomo di intelligenza e profondità.

Soffrire in Occidente non è più un sentimento legittimo e degno di rispetto come lo era fino agli anni Novanta.

Ma io non mi voglio rassegnare, perché l’altro lato del dolore è la gioia pura, quella voglia di vivere che ha un sapore unico solo quando hai ottime ragioni per restare in questo mondo.

E non è forse questa la potenza straordinaria del Medio Oriente, che con tutti i suoi conflitti conserva una vitalità unica e quasi inspiegabile. Una vitalità che forse ha spinto anche te a vivere qui?

From: fiammetta martegani

To: susan dabbous

Carissima Susan,

come sempre mi poni domande a cui faccio fatica a dare una risposta.

Sicuramente sì, c’é qualcosa di unico, se non in Medio Oriente sicuramente in Israele, che é proprio quella vitalità di cui parli tu e il cui lato paradossale, in un certo senso, sta nel fatto che si sviluppa quasi come antidoto per sopravvivere alla guerra, alla paura e alla morte.

I più grandi artisti israeliani, per esempio, e quando parlo di artisti mi riferisco a scrittori, musicisti, registi e artisti visuali, sono persone che sono rimaste profondamente scottate dal conflitto e che usano la propria arte in modo da poter apportare il proprio contributo critico.

E per tornare al grande vuoto di cui tu parlavi prima, quello che é iniziato con la crisi economica del 2008 per passare dalle primavere arabe fino ad arrivare ai giorni nostri, ritengo che sia il risultato di una totale mancanza di prospettiva critica dovuta in parte proprio alla sempre più dirompente omologazione culturale, che porta alla scelta di eleggere leader politici, da un capo all’altro del mondo, senza alcun senso di responsabilità non soltanto nei confronti degli altri, ma prima ancora del proprio popolo.

Per questo, come dicevi tu all’inizio, é fondamentale cominciare dai babini, e dalla loro apertura mentale, immaginazione e voglia di imparare perché, come direbbe Antoine de Saint-Exupéry, tutti i grandi sono stati bambini un tempo. Ma pochi di essi se ne ricordano.

 

 

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