Medio Oriente
La giornata della Shoah: dalla memoria dei morti alla memoria dei vivi
from:susan dabbous
To: fiammetta martegani
Cara Fiammetta,
Siamo a ridosso della giornata della Shoah e mi vengono in mente due cose: la prima, tristissima, è l’immagine delle vittime delle armi chimiche morte in Siria a Duma, periferia di Damasco, sabato scorso. Un’associazione di idee che ha fatto anche Avner Shalev, il direttore del museo dell’olocausto, Yad Vashem, di Gerusalemme. «Alla luce dell’uccisione di massa di civili, incluso bambini, con armi chimiche in Siria– ha detto – è evidente che qualcosa, della Comunità internazionale, non ha funzionato». Dopo l’Olocausto infatti le istituzioni internazionali si sono dotate, in teoria, di meccanismi di prevenzione di questi crimini contro l’umanità. Allora perché dobbiamo ancora assistere alle immagini strazianti di innocenti esanimi con la schiuma alla bocca?
La seconda invece, tutt’altro che triste, è la mostra “Navi della Speranza” da te curata sui profughi della Shoah che nonostante il destino avverso, che è poi quello che accumuna tutti i profughi di tutte le epoche e tutte le religioni, sono riusciti ad arrivare nella Terra Promessa, l’allora Palestina che poi sarebbe diventato lo Stato di Israele.
Mi chiedo se ci sarà speranza anche per i profughi di oggi, di lasciarsi un giorno alle spalle le atrocità vissute in questi anni. Il racconto attraverso le immagini, i film, e i documenti della tua mostra lasciano davvero un po’ di speranza, anche in tempi bui come questi.
from: fiammetta martegani
to: susan dabbous
Carissima Susan,
proprio ieri, durante la conferenza stampa, mentre accompagnavo i giornalisti lungo il percorso della mostra in un luogo così significativo come il Memoriale della Shoah di Milano, ovvero il Binario 21 della Stazione Centrale, da cui partivano i treni per i campi di concentramento, mi sono resa conto dell’importanza di allestire, in uno spazio progettato per la memoria dei morti, una mostra dedicata ai sopravvissuti, per omaggiare la memoria dei vivi.
La mostra racconta la loro storia, la storia dei sopravvissuti ai campi di concentramento che, non avendo alcun luogo, alcuna casa e, molto spesso, alcuna famiglia da cui poter tornare, hanno deciso di avventurarsi verso la Terra Promessa, ovvero la Palestina sotto il Mandato Britannico, che, per ragioni diplomatiche nei confronti della popolazione araba, aveva allora posto un blocco, il famoso “Libro Bianco”, all’immigrazione degli ebrei in Palestina.
Ciò nonostante, tra il 1945 e il 1948, 34 navi sono riuscite a partire illegalmente dall’Italia, portando in salvo oltre 21.000 di quei sopravvissuti ai campi di sterminio.
Per questo, abbiamo deciso di intitolare la mostra “Navi della Speranza”, per dare un messaggio di speranza, anche alla luce degli eventi di oggi, attraverso la memoria dei sopravvissuti.
from:susan dabbous
to: fiammetta martegani
Ricordo quando avevo visto la mostra al Museo Eretz Israel di Tel Aviv e la cosa che mi aveva impressionato di più erano le foto dei profughi ebrei che percorsero lo stesso sentiero sulle Alpi francesi che hanno fatto recentemente i profughi siriani, solo in direzioni opposte. Gli ebrei del dopoguerra lasciavano l’Europa nazista per avventurarsi in Medio Oriente, mentre oggi i siriani lasciato un paese stupendo, ma dilaniato dalla guerra, come la Siria, per recarsi in Europa in cerca di pace. Entrambi, siriani ed ebrei, sono stati sia aiutati che sfruttati da trafficanti di diverso genere durante le loro disavventure per arrivare a destinazione.
A me colpisce più chi aiuta e non chi sfrutta. Se penso ai salvataggi in mare dei naufraghi, da parte della Guardia Costiera Italiana, mi vengono in mente i volti delle madri siriane commosse. Non scorderò mai quelle donne piene di gratitudine, che ho intervistato nel 2014 proprio a Milano, quando i siriani sono arrivati a migliaia in Europa, transitando dall’Italia. Quando si parla di migranti nei dibattiti pubblici si tende sempre a sottolineare gli aspetti negativi, l’inospitalità umana che porta alla protezione becera degli spazi comuni, ma si dovrebbe, come hai giustamente fatto tu nella mostra, parlare anche di figure eroiche come quella del Capitano Enrico Levi, la cui incredibile storia meriterebbe, da sola, una biografia. Non trovi?
from: fiammetta martegani
to: susan dabbous
Carissima Susan,
in attesa che un giorno venga scritta una biografia, magari addirittura la sceneggiatura di un film, sull’affascinante figura di Enrico Levi, come ben sai, ho deciso di omaggiare il capitano coraggioso dando il suo nome a mio figlio, che è nato proprio poco prima che la mostra inaugurasse in Israele.
Enrico Levi, infatti, fu l’unico, tra tutti i capitani, che, in quanto ebreo, agì per amore del suo popolo e alla fine, dopo aver trasportato per sei lunghi viaggi i “clandestini del mare” così come li chiamava Ada Sereni, l’eroina che organizzò tutta l’operazione illegale assieme a Yehuda Arazi, decise di fermarsi a vivere in Israele dove costruì importanti porti marittimi come quello di Eilat e Ashdod: nulla a che vedere con i piccoli porticcioli dove sbarcarono, di nascosto dagli inglesi, i sopravvissuti alla Shoah.
Alcuni di loro, tra l’altro, furono scoperti dagli inglesi ed esiliati, per la terza volta, dopo i campi di concentramento in Europa e i campi di detenzione in Italia, nei campi di detenzione di Cipro, dove rimasero prigionieri fino alla fondazione dello Stato di Israele.
Una vera odissea nell’odissea, come quella raccontata da Primo Levi nella “Tregua” e come quella che ancora oggi vivono i profughi dei nostri giorni.
Per questo, la mostra “Navi della Speranza” non è solo una mostra sui sopravvissuti ma soprattutto su tutti coloro che li hanno aiutati, tutti i cittadini italiani, i capitani delle navi ma anche gente comune, che non si sono voluti arrendere all’Indifferenza, che, come spiega la nostra Senatrice a vita Liliana Segre, é stato il comune denominatore che ha potuto permettere la banalità del male della Shoah.
Per questo, oggi come allora, non possiamo rimanere indifferenti.
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