Medio Oriente
La fine del Bacio e la fine di un’epoca
From: susandabbous
To: fiammettamartegani
Cara Fiammetta,
ti scrivo dal Menza, il mio caffè preferito a Gerusalemme, un luogo spazioso e moderno che ormai scherzosamente chiamo “il mio ufficio”. Qui ho passato, negli ultimi anni, la maggior parte del tempo che riesco a dedicare alla scrittura, lontano da una casa con tanti giocattoli e piccole (in senso letterale) distrazioni.
Ho letto con dispiacere su Haartez, invece, che il tuo caffè preferito a Tel Aviv, il Bacio, ha chiuso. Mi dispiace non averlo mai visto e non poter conoscere dal vivo il leggendario luogo dove si svolge il tuo romanzo “Life on Mars”, i cui personaggi, puri telaviviani, sembrano essere una perfetta “coperta di Linus” per la protagonista milanese, sbarcata, a mio avviso, proprio in quel bar, in cerca di una famiglia israeliana: non in cerca di semplici amici, ma di un modello culturale di riferimento, giovane e creativo, seppure ricco di complessi e contraddizioni legati alla storia del popolo ebraico.
Io devo ammettere che al Menza non c’è nessuna pretesa culturale: i ragazzi che ci lavorano studiano arte, musica o danza, ma non cercano l’attenzione della clientela con idee originali o discorsi rivoluzionari.
L’ho scelto perché affaccia su una strada pedonale, davanti al Bezalel Institut of Art and Design: una micro scena hipster dove i bigotti di qualsiasi appartenenza non mettono piede, vista la concentrazione di locali non kosher.
Ma dimmi del Bacio, cosa ha perso davvero Tel Aviv con la sua chiusura?
From: fiammetta martegani
To: susandabbous
Cara Susan, hai proprio ragione.
Con la chiusura del Bacio a Tel Aviv si chiude un’epoca.
Come racconta Ofry Ilany nell’articolo su Haaretz, il Bacio è l’ultimo bar a chiudere dopo una serie di caffè letterari che hanno fatto la storia non solo di Tel Aviv ma dell’intero Paese.
Il primo a chiudere è stato il caffè Noach, a pochi passi dall’Habima, il Teatro Nazionale, frequentato da artisti e intellettuali legati non soltanto al mondo teatrale.
In seguito a chiudere è stato Tamar, aperto in Shenkin nel 1941, prima ancora della nascita dello Stato di Israele. Sara Stern, fondatrice e proprietaria, inconfondibile per via dei suoi capelli grigi dalle sfumature color turchino, per oltre 70 anni vi ha servito ottimi caffè e pessimi sandwich a politici, giornalisti e intellettuali che hanno fatto, nel vero senso della parola, la storia di Israele, a partire da Itzhak Rabin.
Per ultimo è toccato al Bacio, in King George angolo Shlomo Ha Melech, che, per chi non sapesse l’ebraico significa “Re Salomone”, universalmente noto per la sua saggezza.
Forse non era un caso che, proprio al Bacio, si trovassero a riflettere e a scrivere un gran numero di ricercatori, tra cui la sottoscritta, che, prima ancora di scrivere il romanzo Life on Mars, al Bacio ha scritto la sua intera tesi di Dottorato.
Come giustamente afferma Ilany, in questi caffè letterari di Tel Aviv è stata prodotta più cultura e letteratura che in interi dipartimenti sparsi tra le diverse università del Paese.
Al Bacio, in particolare, è stata scritta anche la storia del cinema israeliano, nel senso che molti registi hanno scritto in questo locale la sceneggiatura dei loro film.
Alcuni di loro sono presenti nel libro che ho pubblicato a seguito della mia tesi di dottorato, nel senso che proprio al Bacio ho avuto la grande opportunità di conoscerli e poterli intervistare.
Altri sono presenti nel mio romanzo, dove molti dei personaggi sono liberamente ispirati a clienti e baristi, a loro volta baristi per caso e artisti per professione.
Il Bacio aveva aperto ventidue anni fa, inizialmente come una piccola gelateria che negli anni si era ingrandita fino a diventare un vero e proprio bar e perdendo, in parte, il fascino del piccolo caffè medio orientale e allineandosi allo stile hipster e omologato che troviamo ormai in certi quartieri di tutte le grandi città, da New York a Singapore, da Berlino al Beirut.
Con la chiusura del Bacio si è chiusa davvero un’epoca. Non solo per me, italiana in terra straniera alla ricerca, come dici tu, di una “famiglia adottiva”, ma per un’intera generazione di scrittori, giornalisti, dottorandi, fondatori di startup, liberi pensatori e creativi alla ricerca di un luogo in cui arricchirsi vicendevolmente attraverso lo scambio di esperienze ed idee.
Da quando ha chiuso non faccio che cercare un luogo del genere ma, fino ad oggi, con scarsissimi risultati.
A volte mi domando se è davvero la fine di un’epoca, o di una generazione. Non solo a Tel Aviv, ma in tutto il mondo.
Forse i Millenials non hanno più bisogno di trovarsi in un luogo fisico perché per loro è sufficente lo spazio virtuale dei social network?
O forse siamo noi che da quando siamo diventate mamme siamo diventate “vecchie” e facciamo più fatica ad adattarci al nuovo stile di vita “Starbucks”?
O forse soffriamo di nostalgia per un’idea di Medio Oriente che non esiste più?
From: susandabbous
To: fiammettamartegani
Ti do il mio parere da profana, il problema non è il Medio Oriente, ma Tel Aviv, che con la chiusura dei suoi caffè culturali storici ha deciso di essere sempre meno Beirut e sempre più Miami.
Tel Aviv mi ricordava per molti aspetti la capitale libanese: sono due città mediterranee, aperte alle culture limitrofe, ospiti generose di festival letterari e set cinematografici naturali.
Ma oggi Tel Aviv sembra aver perso un po’ quello spirito bohémienne per diventare una capitale trendy capace di attrarre più capitali finanziari che umani.
Non che Beirut sia immune a questo gioco immobiliare al rialzo, tutt’altro. Ma i caffè letterari sono troppo vitali per sparire: resistono affianco alle grandi catene continuando ad ospitare vecchi e nuovi rivoluzionari senz’armi, ora palestinesi, ora siriani; ora cristiani, ora musulmani. Non credo di aver mai visto nulla di simile in altre parti del Medio Oriente. Sarà che a Beirut manca un souk, sarà che la guerra civile l’ha smembrata in tre macro aree, ma di sicuro i beirutini tentano di assemblarsi nei caffè dove restano fuori le divisioni confessionali e politiche che invece dominano le dinamiche dell’intero Paese. Quanto alle grandi catene mi piace la risposta local che ha dato Betlemme al gigante Starbuks: ha creato la sua versione tarocca “Star & Bucks” con tanto di tazze che richiamano il marchio a stella.
Tuttavia non credo sia frequentato da grandi menti che preferiscono, invece, l’Educational Bookshop di Gerusalemme Est, libreria che ospita tutte le settimane dibattiti e presentazioni di libri, non solo sulla questione palestinese.
Come vedi, lì dove c’è sete di libertà d’espressione i caffè culturali resistono.
Tel Aviv si è forse affrancata da questa esigenza di condividere idee e dolore, forse perché le recenti guerre sono state meno percepite dalla sua gente?
From: fiammetta martegani
To: susandabbous
Bella domanda. Non credo che le ultime guerre si siano sentite di meno, anzi, se possibilie a Tel Aviv si sono sentite molto di più, perché se fino al 2012 Tel Aviv non era mai stata colpita direttamente dai razzi di Hamas, da allora, come nel 2014, la Città Bianca è diventata il bersaglio principale proprio per tutto ciò che rappresenta: denaro, commercio ma anche libertà e apertura verso l’altro.
Credo, piuttosto, che a prendere il sopravvento sia stata la logica capitalista speculativa che, a Tel Aviv come in tutto il mondo, schiaccia i piccoli business locali a vantaggio delle grandi compagnie multinazionali.
La cosa impressionante è come tutto questo, a Tel Aviv, sia successo nel giro di pochi anni.
La prima volta che ho messo piede a Tel Aviv, nel non lontano 2007, questa città, non ci crederai, ma ricordava molto piú Beirut di Miami.
Infatti, anche se allora non era mai stata toccata direttamente dalla guerra, intesa come attacchi dall’alto, i segni della guerra si sentivano nell’aria, perché solo pochi anni prima, a Tel Aviv come nel resto del Paese, si poteva perdere la vita semplicemente salendo sull’autobus “sbagliato”.
Non conosco un israeliano che non abbia perso almeno un parente o un caro amico nel corso di un attacco terrorista.
Gli anni dell’Intifada hanno segnato in modo indelebile la storia di Israele e hanno in parte compromesso, in via del tutto definitiva, la fiducia, da parte del popolo israeliano, di tornare alle trattaive di pace con il popolo palestinese.
Ma non vorrei certo esaurire la complessità del dibattito sul processo di pace in un post come questo.
Certo é che, anche solo per tornare al dibattito, prima di tutto tra gli stessi israeliani, sarebbe necessario, prima ancora di tornare al tavolo delle trattative guidato dai rappresentanti politici di ciascun Paese, tornare ai tavoli dei bar, sedersi faccia a faccia con la vita quotidiana e potersi confrontare su tutto: dalla letteratura alla politica; dall’educazione dei figli al rispetto dell’ambiente; dalla ricerca, alla messa in pratica, di un mondo migliore.
Non soltanto in Medio Oriente.
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