Medio Oriente

“Israele non è un monolite, il clima sta cambiando”

6 Luglio 2024

Intervista a Omri Evron (Peace Partnership)

Lunedì un’assemblea pubblica a Tel Aviv, “Il tempo è ora”, ha visto la partecipazione di circa 6.000 persone, israeliani e palestinesi, che hanno discusso di fine della guerra e dell’occupazione, ritorno degli ostaggi, pace giustizia e libertà. Ne abbiamo parlato con un esponente giovane ma in qualche misura già “storico” della sinistra israeliana (è diventato celebre giovanissimo come refusnik). È Omri Evron, attivista residente a Jaffa, militante e membro del Comitato centrale del Partito Comunista israeliano, da poco presidente di Peace Partnership, una coalizione di 50 organizzazioni nata a dicembre per organizzare l’opposizione alla guerra.

Proprio ieri abbiamo letto di questo incontro pubblico a cui hanno preso parte 6.000 ebrei, palestinesi e arabo-israeliani.

Sì, noi non eravamo tra gli organizzatori, ma eravamo coinvolti. Si è trattato del tentativo di ricostruire uno schieramento che include anche alcuni gruppi sionisti, non necessariamente schierati contro questa guerra, ma che capiscono che l’unica via d’uscita è la pace tra i due popoli.

Quando ci siamo conosciuti, quasi vent’anni fa tu eri un refusnik e stavi facendo un tour in Italia per spiegare perché ti eri rifiutato di prestare servizio nell’IDF. Consideri ancora valide quelle ragioni?

Purtroppo oggi sono molto più valide di allora, perché è sempre più chiaro che le politiche a cui mi opponevo, cioè l’idea che la sicurezza di Israele possa fondarsi sull’occupazione militare e sull’oppressione dei palestinesi, si sono rivelate distruttive per i palestinesi e controproducenti per la sicurezza del popolo israeliano. I terribili attacchi di Hamas il 7 ottobre dimostrano che proteggere il popolo israeliano occupando i territori palestinesi è impossibile.

Qual è l’atteggiamento della popolazione e dei lavoratori israeliani e arabo-israeliani in particolare nei confronti della guerra? Sta cambiando al passare del tempo?

Sta cambiando molto rapidamente. La recente storia di Israele è stata molto turbolenta. Netanyahu è al potere ormai da molti anni e la società si sta polarizzando tra suoi sostenitori e oppositori su temi strutturali come l’occupazione, la pace, ma anche la situazione economica. Alle precedenti elezioni l’eterogenea coalizione anti Netanyahu formata dai liberali e dalla sinistra sionista aveva scelto deliberatamente di non occuparsi dell’occupazione. Ma dopo le ultime elezioni, quando il governo più a destra della storia di Israele guidato da Netanyahu è salito al potere, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza. All’inizio le manifestazioni vertevano esclusivamente sul tema della democrazia. Ma a un certo punto la gente ha cominciato a chiedersi in che cosa consistesse di fatto questa democrazia e noi abbiamo lanciato il “Blocco contro l’occupazione”. Chiunque protesti contro il governo fascista di Netanyahu per noi è un interlocutore, ma noi diciamo loro che non ci può essere democrazia solo per gli ebrei e che le politiche reazionarie di Netanyahu non spuntano improvvisamente dal nulla, ma si basano sulle ingiustizie strutturali presenti nella società israeliana.

Che difficoltà avete affrontato? Immagino non sia stato semplice.

Inizialmente abbiamo svolto un ruolo marginale, ma col passar del tempo sempre più persone hanno accettato l’idea che la questione dell’occupazione non poteva essere ignorata. Avevamo fatto un primo passo avanti, ma dopo il 7 ottobre naturalmente la situazione è precipitata. Quel massacro terribile ha suscitato una risposta reazionaria da parte del governo e ci siamo trovati in una situazione in cui non era possibile criticare la guerra e non c’era alcuna empatia per la popolazione di Gaza. Molti nostri compagni, soprattutto arabi-israeliani, ma anche ebrei, venivano arrestati per i post pubblicati sui social e le posizioni espresse all’università. Di fronte a una repressione che non vedevamo da decenni mobilitarsi contro la guerra è stato estremamente difficile. La sinistra sionista e i liberali inizialmente sostenevano la guerra con decisione. Nondimeno abbiamo cercato di mobilitarci e siamo riusciti a organizzare una prima manifestazione autorizzata a novembre. [100.000 persone secondo il sito 972+]

Questo primo passo vi ha aiutato?

Questo ha incoraggiato noi e altri organizzazioni e a dicembre abbiamo lanciato la Peace Partnership. La situazione è difficile, perché nessuno ammette i crimini commessi, i media non ce li mostrano e spesso le critiche al governo riguardano l’impreparazione con cui si è fatto cogliere il 7 ottobre e il modo di condurre la guerra, più che la guerra in sé. Ma il clima sta cambiando. Col passare dei mesi molti hanno cominciato a capire che la guerra non riporterà gli ostaggi e che non Hamas non può essere battuto militarmente. La guerra, lungi dal risolvere i problemi, vede combinarsi i tentativi di Netanyahu di sopravvivere e quelli dei suoi alleati di estrema destra di cogliere l’occasione per promuovere la pulizia etnica. Ma ci ha aiutato il fatto che molti dei familiari delle vittime del 7 ottobre e degli ostaggi hanno capito che la guerra non restituirà loro i loro cari. L’assemblea di ieri riflette questo cambiamento del clima.

Anche nello Stato israeliano sembrano emergere alcune crepe: penso al recente scontro tra Netanyahu e lo Shin bet e l’IDF per la liberazione di alcuni prigionieri nei giorni scorsi.

Sì, come sai, uno dei maggiori rivali di Netanyahu, Benny Gantz, un ex militare, quando è iniziato tutto è entrato nel gabinetto di guerra, ma di recente lo ha abbandonato. Gantz naturalmente polemizza sul modo in cui è condotta la guerra senza metterne in discussione l’opportunità. Però la sua critica è interessante perché è un politico lontanissimo dalla sinistra. Ma anche gli altri episodi che citavi confermano che settori di militari e dell’intelligence sono scontenti del modo in cui Netanyahu ai aggrappa alla soluzione militare e rifiuta di metter fine ai combattimenti con un accordo sugli ostaggi.

Quali sono le organizzazioni che oggi in Israele si battono contro la guerra e l’oppressione del popolo palestinese?

Tra le forze politiche l’unico partito che ha sempre detto no alla guerra è Hadash, il fronte elettorale del Partito Comunista, i cui parlamentari perciò sono stati sospesi e non possono più intervenire alla Knesset. La sinistra sionista, invece, in particolare i laburisti, non ha mai preso posizione contro la guerra. Anche gli esponenti del movimento contro la riforma della giustizia di Netanyahu tacciono: secondo loro non abbiamo commesso crimini, siamo semplicemente vittime e chi ci critica è antisemita.

E il sindacato?

Uno degli obiettivi di chi va in piazza è smuovere Histadrut [la centrale sindacale israeliana], perché tutti sanno che la sola organizzazione dotata della forza necessaria a promuovere una rivolta popolare contro Netanyahu sono i sindacati. Purtroppo finora il gruppo dirigente della confederazione si è mostrato estremamente codardo e rifiuta di prendere posizione, un atteggiamento che suscita irritazione diffusa. Ma ci sono stati episodi in cui alcune organizzazioni dei lavoratori sono entrate in lotta. Il mese scorso, ad esempio, la polizia ha picchiato brutalmente alcuni partecipanti a una manifestazione per il cessate il fuoco e quando un medico è intervenuto per assisterle ha picchiato anche lui, spingendo il sindacato dei lavoratori della sanità a scioperare contro la polizia.

Nella sinistra italiana sembra che un approccio di classe alla questione palestinese sia impossibile, cioè che l’unica strada sia risolvere prima la questione nazionale e poi quella sociale. Insomma fare appello a una lotta comune dei proletari israeliani e palestinesi non avrebbe senso. Tu cosa ne pensi?

Penso sia una discussione molto importante e molto complessa. L’occupazione è un tema centrale e non possiamo rivendicare la democrazia in Palestina senza metter fine all’occupazione e senza uno Stato palestinese. Ma questo non può portarci a ignorare che la società israeliana è molto divisa e che in essa troviamo oppressione e lotta di classe. Non rientra nelle mie abitudini di militante politico dire alle organizzazioni di altri paesi cosa devono fare, ma se la sinistra internazionale considera Israele un monolite commette un errore. Anche qui ci sono interessi diversi. La maggioranza della popolazione israeliana ha come interesse principale metter fine alla guerra e all’occupazione e vivere in pace accanto a uno Stato palestinese indipendente. E l’unico modo per riuscirci è una lotta comune dei lavoratori arabi ed ebrei.

Sembri ottimista…

Sono incoraggiato dal fatto che oggi molti israeliani vanno in piazza e si battono per mandare a casa il governo e vivere in una società migliore. La sfida per i socialisti è convincerli che per avere democrazia, sicurezza e giustizia sociale bisogna metter fine all’occupazione e creare una società in cui ebrei e arabi abbiano pari diritti e lottino fianco a fianco contro fascisti e profeti di guerra. Ma non basta tornare a prima di Netanyahu, bisogna mettere fine a un colonialismo sistematico e all’occupazione, che precedono Netanyahu. Molti israeliani hanno dimostrato di essere pronti a lottare e penso che su questa base possiamo costruire qualcosa di positivo.

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