Medio Oriente
Io sono Yarmouk: storia di un campo profughi e di una tardiva celebrità
C’è da arrossire, per tutta questa celebrità. Non lo nego: non me l’aspettavo. Perché io, Yarmouk, a stare sotto i riflettori del vostro dolore, della vostra solidarietà, citato a destra e a manca, strattonato di qua e di là tra persone che oggi – addirittura – litigano su chi per primo e meglio degli altri si è occupato di me e della mia gente.
E allora perché, oggi come negli ultimi sessanta anni, mi sento solo? Solo con gli ultimi 18mila disperati che si nascondono come topi dietro quei quattro calcinacci che restano in piedi? Sono vecchio ormai, non riesco più a farmi ingannare dalla solidarietà. Quella che arriva sempre a comando, per una questione si, ma per l’altra no. Sono invecchiato, ammalato di geopolitica e realpolitik, ho visto cambiare regimi e ideologie. Ma io son sempre rimasto solo. Con la mia gente.
Sono nato nel 1957. Un ‘non luogo’, direbbero i vostri commentatori. Un sobborgo della capitale siriana Damasco, a soli otto chilometri dal centro. Ho tentato di essere casa, ma è difficile, soprattutto quando nasci con l’idea che sei una condizione temporanea. Non ho avuto neanche l’investitura di campo profughi ‘ufficiale’, perché qui la gente in fuga dalla Cisgiordania veniva per fermarsi qualche tempo.
Un piccolo mucchio di cose, una chiave della casa in Palestina, che tanto appena nasce lo stato palestinese si torna a casa. E invece no. Sono ancora qui, anche se dei quasi 150mila profughi ne rimangono meno di 20mila. E gli altri? Non lo so. Sono andati via o sono morti. Per questo sono stupito. Dove eravate?
Dove eravate quando è iniziato questo infame assedio? Dove eravate quando l’aviazione del regime siriano ci bombardava ogni giorno, chiudendo l’accesso a ogni genere di prima necessità? Dove erravate quando siamo stati costretti a mangiare i cani per non morire? Certo, una foto drammatica vi ha scosso, un’umanità lacera assiepata per un tozzo di pane. Le Nazioni Unite dicono che per sopravvivere avremmo bisogno di 400 box food al giorno, come li chiamano loro, ma ne abbiamo ricevuti solo 89 al giorno nel 2014.
Poi sono arrivati questi barbari dell’ISIS. Tutto a un tratto, io per voi esisto. Sono importante, la mia gente ha bisogno di aiuto. Certo. Ma dove eravate fino a ieri? Morivamo come oggi, allo stesso modo. E come sono entrati? Se combattono l’esercito di Assad, che circondava e bombardava il campo da anni, come hanno potuto entrare e prendere il controllo del campo? Non riesco a capire, vedo solo la mia gente che muore.
Non è la prima volta. Negli anni Sessanta e Settanta, centinaia dei miei figli morirono negli scontri con le forze israeliane, quel nemico che in passato univa i miei figli. Ma anche loro, poi, hanno iniziato a dividersi. Negli anni Ottanta il presidente siriano Hafez al Assad, il padre di quello attuale, ha voluto punire me e la mia gente, ci considerava una roccaforte dell’opposizione. Dopo aver bandito dal paese il nostro leader Arafat, arrestò migliaia di suoi sostenitori.
Man mano che s’inasprivano i rapporti tra l’Olp e il governo siriano, i gruppi come Hamas e Jihad islamica, che non contavano molto, hanno cominciato a riempire il vuoto politico all’interno del campo e a fare proseliti tra i giovani. Il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, ha vissuto a Yarmouk fino al febbraio del 2012, quando si è trasferito in Qatar dopo essersi rifiutato di sostenere Bashar al Assad. A quel punto le leadership dei movimenti islamici hanno dichiarato il loro sostegno all’opposizione siriana.
Il campo profughi è stato trascinato nella guerra in Siria nel dicembre del 2012: il regime di Assad ha bombardato il campo, assediandolo e isolandolo. Ricordo ancora le ferite del 16 dicembre di quell’anno, quando l’aviazione siriana ha bombardato il campo, uccidendo decine di civili. Migliaia di persone sono fuggite a Damasco, o hanno raggiunto il Libano e la Giordania. A Yarmouk sono rimaste circa 18mila persone.
Il tentativo dei ribelli di conquistare Damasco è fallito. Il regime di Assad ha reagito: a luglio del 2013 l’assedio è diventato quasi totale e gli abitanti si sono ritrovati senza cibo, acqua e beni di prima necessità. Nel corso del 2014 le parti hanno concesso dei permessi temporanei alle agenzie umanitarie per distribuire aiuti, ma l’Unrwa non è stata ancora in grado di fare una valutazione complessiva della situazione dentro il campo.
È strana la vita di un campo profughi, ufficiale o non ufficiale. Nasci con delle tende, come il bivacco di un giorno. E pian piano, senza accorgertene, cambi. Le tende diventano baracche, le baracche diventano cubi di cemento. Le famiglie crescono i figli si sposano e generano altri figli, che su quel cubo di cemento costruiscono un altro piano e un altro ancora.
Case, alla fin fine. E continui a chiamarti profugo, anche se hai capito – in particolare dopo gli Accordi di Oslo della fine degli anni Novanta, che la Palestina non l’avresti vista più. Alla fine c’erano ospedali, e 28 scuole. Oggi tutte chiuse. Elettricità e acqua corrente mancano da mesi.
L’ultimo tentativo di raggiungere un cessate il fuoco per mettere fine all’assedio è stato nel giugno del 2014, quando i rappresentati dei gruppi armati e della società civile hanno firmato un accordo con il governo di Assad, che prevedeva l’allontanamento delle fazioni armate dal campo in seguito alla creazione di una nuova forza di sicurezza. L’accordo non è mai stato applicato. Perché ti viene il dubbio che non interessi davvero a nessuno.
E oggi sono qui, all’improvviso, sulla bocca di tutti. Ho sentito, addirittura, che mi hanno chiamato ‘una nuova Srebrenica’. So che è stata una brutta storia quella, una di quelle che segnano la vita e la pelle della gente, profuga o meno. E’ sempre così in guerra. E io sono in guerra da tutta la vita, con la mia gente, senza terra e senza futuro. No, non riesco proprio a ringraziarvi per l’attenzione di questi giorni.
Non riesco a farlo perché son qui da troppo tempo per non sentirmi usato, se è solo oggi che vi ricordate di questo dolore. Non riesco a farlo perché un profugo dovrebbe avere un posto dove tornare, senza essere due volte profugo nella stessa vita. Non riesco a farlo perché ognuna delle persone che vivono dentro di me sono state sempre e solo vittime, di guerra, fame, politica. E solitudine.
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