Medio Oriente
Iran, parla Alí Ghaderi: “Le manifestazioni scuotono un regime in piena crisi”
Intervista con Alì Ghaderi (Fedayn del Popolo Iraniano)
Da qualche settimana le città italiane sono attraversate da iniziative di solidarietà con le donne e gli studenti iraniani che dal 16 settembre protestano contro l’uccisione di Mahsa Amini da parte delle forze di sicurezza della Repubblica islamica. Un’attenzione accentuatasi dopo la notizia dell’arresto a Tehran di una giovane viaggiatrice romana, Alessia Piperno, che sulla sua pagina Instagram aveva espresso vicinanza alle manifestazioni popolari. Martedì un comunicato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana forniva l’immagine di un movimento che attraversa le principali città dell’Iran e oltre alle donne coinvolge studenti, lavoratori e commercianti a Tehran, Isfahan, Karaj, Shiraz, Mashhad e nel Kurdistan iraniano, regione di provenienza di Mahsa Amini. Con un bilancio che, secondo i primi calcoli, ammonterebbe a 400 morti e 20.000 arresti in 170 località. Ne parliamo con Alì Ghaderi, responsabile esteri dei Guerriglieri Fedayn del Popolo Iraniano, che insieme ai Mujahedin del Popolo costituiscono il nucleo del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana.
Cominciamo ricapitolando i fatti.
Mahsa Amini è una ragazza di 22 anni che vive nel Kurdistan iraniano. A settembre parte e va a Tehran in ferie, dove viene arrestata perché ha due ciocche di capelli che escono dall’hijab, il velo che secondo la rigida legge islamica applicata in Iran deve coprire interamente i capelli delle donne. Lei protesta. Alcuni testimoni dichiareranno che viene picchiata, colpita in testa e va in coma. Quando la notizia della morte si diffonde iniziano le manifestazioni. La rabbia è alimentata anche dal fatto che le autorità inizialmente rifiutano di consegnare il corpo della ragazza ai familiari e quando alla fine lo consegnano vietano loro di celebrare i funerali. Del resto si tratta di una consuetudine che riguarda tutti i martiri della persecuzione islamista. Le autorità, infatti, temono che da cerimonie i funerali si trasformino in manifestazioni di protesta.
Che caratteristiche ha questa mobilitazione?
Ha i tratti di una mobilitazione importante e molto dura. Ci sono morti, feriti e migliaia di arresti, ma è difficile ottenere dati precisi. L’altro ieri, ad esempio, durante la notte sono stati attaccati gli studenti del Politecnico Sharif a Tehran ed è stato un massacro, ma ancora non sappiamo quanti sono stati i morti, perché le forze di sicurezza di solito portano via i corpi delle vittime. La mobilitazione è partita dal Kurdistan iraniano, la regione di origine di Mahsa, per poi estendersi alle grandi città e alle università. Ma ci sono state manifestazioni anche in alcuni centri più piccoli, di solito sfociate nella presa di qualche luogo simbolico del potere centrale, caserme o stazioni di polizia. I comunicati che pubblichiamo ogni giorno sul sito del Consiglio Nazionale della Resistenza forniscono informazioni in tempo reale sull’evolversi delle manifestazioni. In questi giorni, ad esempio, hanno cominciato a mobilitarsi anche alcuni settori di lavoratori. Ci sono stati scioperi degli insegnanti. Qualcuno c’era già stato un paio di giorni dopo l’uccisione di Mahsa, ma ora si tratta di azioni più rilevanti. Anche il bazaar di Tehran è stato chiuso per due giorni. E persino alcuni ambienti intellettuali che finora avevano mantenuto una posizione equivoca nei confronti del regime – diciamo che avevano tenuto i piedi in due scarpe – oggi dichiarano di essere dalla parte delle donne iraniane. Registi, calciatori, giornalisti che finora avevano convissuto in modo abbastanza pacifico col regime oggi cominciano ad assumere posizioni scomode. Un noto conduttore televisivo, ad esempio, ha rilasciato alcune dichiarazioni di sostegno alle donne iraniane mentre si trovava all’estero e quando è rientrato in Iran si è visto ritirare il passaporto.
Si tratta di un tentativo dei cosiddetti riformisti di smarcarsi dagli ayatollah?
Guarda, i riformisti io non li vedo. La figlia di Rafsanjani o l’ex premier Moussavi dalla casa-prigione in cui si trova dopo la rivolta del 2009 hanno pronunciato qualche parola a favore del popolo, ma la realtà è che ormai da tempo il regime è compatto, perché lotta per la propria sopravvivenza. La situazione rispetto al passato è cambiata. Le forze del regime hanno ricominciato a sparare sulla gente, ma la gente non si lascia intimidire e questo fatto incide anche sul comportamento delle organizzazioni della Resistenza. Nel messaggio che abbiamo diffuso dopo le prime manifestazioni e i primi morti il presidente del Consiglio nazionale della Resistenza Massoud Rajavi ha detto che rispondere “a proiettile con proiettile e fuoco con fuoco fa parte del diritto all’autodifesa”. Per questo la lotta sta assumendo caratteri inediti. Sono nati ovunque comitati di resistenza di quartiere che attirano le forze di sicurezza in vere e proprie imboscate. Hacker di Anonymous diffondono identità e indirizzi di quei pasdaràn e miliziani basij che si sono macchiati di atti criminali nelle strade e nelle carceri. Alcuni sono stati già colpiti. I mullah stanno cercando di intimidire la popolazione dicendo che finora non hanno utilizzato a pieno la propria forza contro i “controrivoluzionari pagati da paesi stranieri”, come definiscono i manifestanti. Ma mostrano i muscoli per nascondere la loro crisi.
A differenza del 2009 e dei cicli successivi di mobilitazione popolare che hanno attraversato l’Iran, stavolta il movimento ha catalizzato una forte attenzione a livello internazionale. In Italia ogni giorno c’è una manifestazione e anche l’interesse dei media è alto. Come te lo spieghi?
È un’attenzione dovuta in larga misura alla situazione internazionale. L’Iran è un importante alleato della Russia, come la Cina, ma, a differenza della Cina, subalterno a Mosca. Per questo c’è un forte interesse a indebolirlo. La Repubblica islamica ha un esercito forte, sperimentato, perché di fatto viene da 45 anni di guerra, in Siria ha fornito a Putin le truppe di terra e in Ucraina gli fornisce i droni e per questo si è attirata anche le veementi proteste di Zelenski. Quindi c’è anche una strumentalità in questo improvviso sostegno al popolo iraniano. Da questo punto di vista paradossalmente uno dei pochi a prendere una posizione corretta è stato Roger Waters, il cantante dei Pink Floyd, che da una parte ha criticato Zelenski e il nazionalismo ucraino e dall’altra ha espresso il proprio sostegno a chi in Iran manifesta contro uno dei principali alleati di Putin. Anche presentare questa mobilitazione semplicemente come una lotta delle donne, magari, come ha fatto Lucia Annunziata, associando le donne iraniane a quelle afghane, ucraine e russe, è fuorviante. Quella a cui assistiamo in Iran non è una mobilitazione femminista, è una lotta di liberazione che parte dai diritti delle donne e vive di slogan come “Donna, vita, libertà”. Non è un fenomeno isolato socialmente né elitario. Attorno c’è un mondo che si muove, fatto, come ho detto, di giovani, studenti, lavoratori e anche di settori più benestanti, le cui relazioni col regime però si stanno incrinando.
A proposito di donne. Le relazioni tra il capitalismo italiano e Tehran sono strette, molto più di quanto l’italiano medio percepisca e questa è stata anche una delle ragioni per cui negli anni passati spesso è stata messa la sordina alle iniziative di solidarietà col popolo iraniano. L’arresto di Alessia Piperno inciderà sulle relazioni tra Italia e Iran?
La vicenda della ragazza non metterà in pericolo le relazioni commerciali tra i due paesi. Certo costerà un prezzo, perché diventerà materia di contrattazione tra Roma e Tehran. L’arresto non è casuale. Che bisogno c’è di arrestare una ragazza anche se scrive post contro il governo iraniano sul suo profilo Instagram? Tieni conto che non è stata fermata da un poliziotto, ma è stata arrestata dai servizi segreti su ordine del governo. Significa che il regime cercherà di sfruttare questa opportunità per lucrare qualcosa, magari un contratto militare o un intervento un po’ più benigno all’assemblea dell’ONU. Difficile dire quale sarà l’oggetto del negoziato, ma che si negozierà è certo. Invece di sollevare sospetti su cosa ci faceva la ragazza in Iran o speculare sulla sua imprudenza, come ha fatto il giornalista de Il Manifesto Negri, mi pare più interessante riflettere su questo aspetto.
Ti dicevi che il regime oggi è molto indebolito. Per quale ragione? La pandemia ha contribuito?
La pandemia ovviamente ha fatto la sua: ci sono stati molti morti, problemi sociali conseguenti al virus, ma soprattutto la messa in mora del sistema sanitario iraniano, che è integralmente privatizzato, con conseguenze persino peggiori di quelle che la privatizzazione della sanità ha avuto in Occidente. Ma il fatto decisivo è la debolezza strutturale del regime, a cui si aggiunge il problema della successione della “Guida suprema”. Khamenei è vecchio, malato e non gli resta molto da vivere. Questo alimenta divisioni interne al regime: da un lato i religiosi, dall’altro i pasdaràn, che sono i veri detentori del potere, perché nelle loro mani concentrano un enorme potere economico – industria militare, comunicazioni, ferrovie. I mullah vorrebbero sostituire Khamenei con uno di loro, si parla del figlio, ma non trovano un accordo. Questo è il fattore chiave. Finché Khamenei è vivo contribuisce a puntellare i fragili equilibri su cui si fonda il regime, ma già oggi le crepe sono sempre più evidenti. All’interno dei pasdaràn qualche voce critica l’uso eccessivo della violenza proclamando di “voler bene ai giovani iraniani”. Un paternalismo che nasconde la crisi del sistema e le sue divisioni. E col passar del tempo pensiamo che questa crisi sia destinata ad aggravarsi perché la gente non si fermerà.
Peseranno anche i fattori internazionali.
Certo, peseranno sul piatto della bilancia o a favore del regime o a favore della Resistenza. Nonostante l’interesse a indebolire Tehran USA e UE non stanno facendo quello che hanno fatto in Ucraina con Zelenski, anche perché non hanno uno Zelenski iraniano su cui investire. Perciò per il momento si limitano più che altro a sostenere “moralmente” la mobilitazione e a cercare di coprirsi rispetto alla propria opinione pubblica, che solidarizza istintivamente col popolo iraniano.
Intervista tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 7 ottobre 2022.
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