Appalti

Iraq: la diga di Mosul e gli interessi italiani in guerra (ma davvero) con Daesh

22 Febbraio 2016

Erano gli anni Ottanta, Saddam Hussein era già ‘un figlio di puttana, ma era il nostro figlio di puttana’, parafrasando l’abusata citazione attribuita – a torto o a ragione – al presidente Usa Franklin Delano Roosevelt riferita al dittatore del Nicaragua Somoza.

Saddam era un alleato, fondamentale nel contenimento della rivoluzione islamica che nel 1979 aveva detronizzato lo shah di Persia. E per gli alleati i soldi non mancano mai.

Tanto che Saddam diede avvio a faraonici lavori di costruzione di una diga alta più di 130 metri e lunga più di tre chilometri, a 35 chilometri dalla città di Mosul, che ancora oggi è la più grande del Paese e la quarta più grande dell’intero Medio Oriente. Il controllo delle acque del fiume Tigri, con una portata di 11 milioni di metri cubi d’acqua, ha garantito l’irrigazione  di tutta la regione di Ninawa, nell’Iraq settentrionale.

Una diga importante, tanto che quando Saddam non era più un alleato, e una coalizione internazionale guidata dagli Usa ha rovesciato il suo regime, l’efficiente U.S. Army Corps Engineers (il genio militare statunitense) ha apportato imponenti lavori di ammodernamento alla diga nel 2006, reiterandoli fino al 2010, per una spesa complessiva di oltre 30 milioni di dollari.

Da tempo il controllo della diga, come della regione, è tornato alle forze del governo iracheno. Peccato che siano le stesse forze che, nell’agosto del 2014, sono fuggite davanti alle milizie di Daesh senza neanche sparare un colpo. Dieci giorni dopo, le forze curde hanno riconquistato la diga, anche se Daesh è molto vicino e attorno a Mosul  – nelle prossime settimane – potrebbe scatenarsi una battaglia di grandi proporzioni, almeno a giudicare dalle forze che Baghdad continua ad ammassare nella regione.

Nel mezzo, tra Daesh e i curdi, tra le due sponde del Tigri, tra la antica Ninive e la contemporanea Mosul, c’è la grande diga. Che secondo un report dei genieri statunitensi, del 30 gennaio scorso, è “la più pericolosa del mondo”. Perché? La struttura “presenta un rischio importante di crollo, a causa di una serie vuoti non trattati che si aprono nella struttura”.

Il governo iracheno ha risposto seccato al report, ribadendo che ci sono interventi di manutenzione costanti, che però consistono nell’iniettare cemento nelle crepe. Non proprio una procedura che guarda al futuro e alla sicurezza. Che accadrebbe se la diga crollasse? Secondo gli esperti un’onda alta 20 metri di acqua si abbatterebbe sulla regione, mettendo in pericolo la vita di circa 500mila persone.

 

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Fin qui una storia da vecchio e nuovo Iraq, tra Saddam e Daesh, passando per una democrazia esportata sulla pelle di un milione di iracheni morti dal 2003. E l’Italia, che già ha partecipato alla missione in Iraq, oggi torna alla ribalta nella vicenda della diga di Mosul, perché i lavori di messa in sicurezza definitiva sarebbero pronti per essere affidati alla Trevi Spa, azienda leader nel settore, partita da Cesena negli anni Sessanta alla conquista dei cinque continenti, con ’36 società e 45 sedi in 40 paesi diversi’, come si legge sul sito.

L’affare vale 300 milioni di dollari. Il contratto, secondo tutte le fonti di stampa internazionali che si sono occupate della diga, è pronto per essere siglato. Ma al momento i 312 dipendenti, che secondo un reportage del The National sono ‘’gli unici dipendenti pubblici iracheni a essere pagati per  tempo”, sono ancora soli di fronte a un rischio enorme.

Da un lato c’è Daesh alle porte, dall’altro il problema strutturale. Nonostante le dichiarazioni rassicuranti del governo, chi lavora alla diga è preoccupato, anche per l’impossibilità di far arrivare tecnici di alto livello proprio a causa delle scarse condizioni di sicurezza regionali.

L’idea sarebbe quella di un impegno militare italiano (stimato in 450-500 effettivi, tra brigata Garibaldi e brigata Folgore) a protezione della parte ingegneristica dell’appalto italiano. Anche se, come confermato dal premier iracheno Haydar al-Abadi (scambiato per iraniano dal cerimoniale) in visita in Italia qualche giorno fa, “i militari stranieri ben accetti nel nostro paese sono solo quelli con compiti di formazione”.

Ecco, il problema è tutto qui. E non è poco. La Trevi non può correre il rischio di perdere un appalto simile, ma non è affatto facile portarlo a casa e gestirlo. Perché bisognerà entrare con la massima cautela in una zona dove gli interessi turchi, ad esempio, sono fortissimi, nonostante la Turchia attacchi i curdi di casa propria, ha sempre fatto affari con i curdi iracheni.

Di Daesh si è detto, e ci troveremmo molto probabilmente sulla linea del fronte della battaglia per Mosul, che sembra sempre più vicina. Daesh, che ha perso Ramadi, sapeva di poterla perdere, perché le linee di rifornimento e assistenza erano troppo lunghe. Ma Mosul è altra faccenda, troppo vicina al cuore degli affari del gruppo per non difenderla fino alla morte.

Inoltre non va sottovalutata la cesura tra il governo autonomo del Kurdistan e quello federale di Baghdad. Se al-Abadi viene in Italia, è anche e soprattutto per rinsaldare i rapporti con il governo italiano e per rafforzare la sua immagine internazionale, gestendo in prima persona l’appalto. Ma sono i curdi che hanno riconquistato la diga e non si faranno scavalcare senza dire la loro e avere il loro tornaconto.

L’Italia, con 700 uomini, che potrebbero diventare 800 a breve, è ancora in Iraq con compiti di addestramento e sanitari. Ma come sapremmo gestire la prima linea? E come farebbe il governo Renzi a trovarsi – a livello di opinione pubblica, ossessionata dall’idea che poi arrivano gli attentati – nel cuore di una battaglia frontale con Daesh?

La risposta potrebbe essere che ‘money is money’, e non a caso il premier al-Abadi ha poi incontrato l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, per discutere «delle prospettive di sviluppo del settore petrolifero in Iraq e delle attività di sviluppo del giacimento di Zubair», secondo una nota del gruppo italiano.

Insomma la torta fa gola, ma le incognite sono tante. Il dietrofront degli Stati Uniti nei teatri medio orientali, come si vede ogni  giorno, ha scatenato appetiti economici e politici di tanti attori. Francia, Turchia, Russia…tutti pronti a tutto. Per altro, proprio mentre lo scenario della Libia porterà a delle scelte importanti nei prossimi mesi, con l’Italia è messa a rischio dal sorpasso francese. Vale la pena entrare in un gioco che potrebbe essere molto più grande di noi, per una commessa che sembra enorme, ma che a quei livelli non lo è? Magari per compiacere l’Iran, che a Baghdad è la voce chiave, in vista degli investimenti futuri in un paese chiave che esce dalle sanzioni? Prima di qualsiasi scelta serve una strategia di politica estera. E di quella non c’è traccia.

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