Medio Oriente

“In Iran il timer della Rivoluzione è partito”

2 Dicembre 2022

Intervista a Ghazal Afshar, attivista, Associazione Giovani Iraniani in Italia

Se in questi ultimi giorni in Italia si è parlato meno delle manifestazioni di protesta in Iran e ci si è concentrati piuttosto sulla nazionale iraniana di calcio, impegnata nei Mondiali in Qatar, non è perché la mobilitazione stia scemando. Ce lo racconta Ghazal Afshar, esule iraniana, attivista ed esponente dell’Associazione Giovani Iraniani in Italia, legata al Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, in un’intervista in cui abbiamo cercato di andare oltre l’immagine oleografica che l’informazione italiana ci sta fornendo degli eventi. Ne emerge che, fatto salvo il protagonismo indiscusso delle donne iraniane, a ribellarsi al Regime, a differenza che  in passato, è campo di forze sociali molto ampio che abbraccia l’intero paese e che da due mesi e mezzo sfida una brutale repressione  – e anche questo è un fatto inedito – anche perché nell’attuale crisi ha colto i sintomi di disfacimento del regime, di cui secondo Ghazal Afhsar, non è possibile prevedere la durata, ma che è ormai irreversibile.

Oggi è il 75esimo giorno di protesta, due mesi e mezzo, e da qualche giorno in Italia si parla meno di manifestazioni in Iran e ci si concentra di più, ad esempio, sulla squadra di calcio iraniana ai mondiali. È segno di un riflusso del movimento o è un meccanismo mediatico?

I media hanno canalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica sui mondiali, ma in Iran la mobilitazione va avanti. Ieri ci sono state manifestazioni in oltre 270 città in tutte e 31 le regioni del paese. Le vittime hanno superato i 660 e gli arrestati i 30.000. Un’altra ragazza è stata uccisa col pretesto dell’infrazione delle regole sul velo. Per quanto riguarda il mondiale, invece, devo dire che gli iraniani che sostengono la nazionale sono pochi. Dopo l’iniziale simpatia suscitata dalla scelta dei giocatori di non cantare l’inno, il fatto che a partire dalla partita successiva abbiano cantato e gioito dei loro gol e delle loro vittorie ha creato un distacco tra loro e la maggioranza del popolo iraniano. Il nome della nazionale in farsi, tim melli, squadra della nazione, è stato storpiato in un tim mullah, squadra dei mullah, e sono circolate le immagini dei giocatori in visita alla guida suprema Khamenei. Tieni conto che oggi tantissimi personaggi famosi, cantanti e artisti iraniani, tra questi, ad esempio, un noto rapper curdo, sono perseguitati, incarcerati o addirittura condannati a morte per aver espresso il loro sostegno alle proteste. Perciò il passo indietro dei giocatori della nazionale è stato vissuto come un tradimento. E molti in Iran hanno festeggiato la loro eliminazione dal Mondiale.

A proposito della mobilitazione in atto tu hai parlato di rivoluzione. Mi pare un modo di sottolineare il fatto che accanto al protagonismo delle donne su cui si concentra la stampa occidentale si muovono anche giovani, lavoratori, settori della classe media intellettuale, ad esempio gli attori e i giornalisti che citavi prima. Quanto è ampia socialmente la mobilitazione?

Mentre nelle proteste degli anni precedenti in piazza abbiamo visto soprattutto i settori sociali più colpiti – donne, lavoratori, giovani e ceti meno abbienti, che costituiscono la maggior parte della popolazione – questa volta le proteste riguardano tutti i ceti. Molte delle manifestazioni avvengono a Tehran, una metropoli con 10 milioni di abitanti, con ampie disparità di classe e dove per la prima volta tutti i quartieri sono coinvolti nelle proteste. Tra i giovani questa volta a scendere in piazza non sono solo gli universitari, ma anche gli studenti delle superiori. Ma aldilà della composizione sociale questa è una rivoluzione perché stavolta la popolazione ha un obiettivo preciso che si evince dagli slogan ed è il rovesciamento del regime. Gli slogan “Abbasso Khamenei”, “Abbasso il dittatore” riflettono il fatto che gli iraniani hanno le idee chiare. E anche se sono tornati a farsi vedere anche i monarchici a chi va in piazza è chiaro non solo che bisogna rovesciare il regime, ma anche che l’alternativa è una repubblica democratica e popolare.

I lavoratori iraniani sono parte del movimento, sono stati protagonisti di scioperi negli anni passati e molti sindacalisti si trovano in prigione. Spesso lavorano in aziende controllate direttamente dal potere centrale o in società che sono state privatizzate svendendole a personaggi vicino al regime.

Gli scioperi dei lavoratori sono sempre stati una delle tipologie classiche di lotta contro il regime, soprattutto in alcune categorie come insegnanti e camionisti. Secondo i dati di HRW nell’ultimo anno ci sono stati quasi 800 scioperi, 69 lavoratori sono stati arrestati e decine interrogati, casi che si aggiungono a quelli dei sindacalisti in carcere che citavi. Negli ultimi 12 mesi l’inflazione è aumentata del 40%, ma i salari vengono pagati spesso con enorme ritardo, soprattutto nel settore pubblico, e questa è una delle principali ragioni di malcontento e scioperi. Tutto ciò avviene perché nonostante l’Iran sia uno dei maggiori produttori di gas e di petrolio al mondo, gli introiti della loro vendita non vengono reinvestiti a vantaggio della società iraniana. Il 90% di quelle risorse va a finire a enti e fondazioni legati a Khamenei. Poi, come dicevi tu, le principali aziende del settore energetico sono gestite da personaggi legati al regime, un’élite che rappresenta forse il 6%-7% della popolazione e di cui fanno parte uomini tra i più ricchi non solo dell’Iran, ma del mondo intero. Il regime dimostra particolare accanimento verso i lavoratori della formazione e della cultura, perché vuol tenere la popolazione nell’ignoranza. Ismael Abdi, segretario del sindacato degli insegnanti ITTA, è detenuto da 5 anni. Nonostante ciò il livello di istruzione nel paese è molto elevato. Ci sono molti laureati. Il 60% degli iraniani ha meno di 30 anni e questa enorme quantità di giovani si dedica allo studio anche perché davanti a sé non ha altre prospettive.

Possiamo dire di trovarci di fronte a segnali di disfacimento del regime, cioè sintomi che ad esempio nel 2009, all’epoca del movimento verde di Moussavi e Karrubi non erano presenti?

I segni di disfacimento ci sono. Come dicevo tutte le regioni del paese sono coinvolte dalle manifestazioni e la mobilitazione va avanti da oltre due mesi, mentre le ondate di protesta precedenti erano terminate nel giro di poche settimane. L’ultima volta, nel 2019, erano già presenti alcuni segni di disfacimento, ma il regime è riuscito a mettere in atto una repressione brutale, uccidendo 1.500 manifestanti in una settimana e bloccando internet, cosa, quest’ultima, che oggi non gli è riuscita anche grazie all’attenzione internazionale. Nel 2020 poi è arrivato il covid, che è stato utilizzato anch’esso dal regime come uno strumento di repressione. In Iran non c’è stata alcuna misura di contenimento dei contagi e i vaccini americani sono stai vietati, additandoli come uno strumento di controllo sulla popolazione. Perciò solo l’élite al potere ha avuto accesso al vaccino Pfizer, mentre agli iraniani sono stati somministrati vaccini cinesi. Oggi però la situazione è diversa. E il fatto che la popolazione continui a manifestare, anche a rischio della vita, è il segnale che anche gli iraniani vedono quei segni di disfacimento.

Si possono azzardare previsioni?

Penso che la rivoluzione avrà successo se il regime verrà isolato, così come venne isolata la monarchia nella rivoluzione del 1979. La strategia che stiamo perseguendo come attivisti è proprio fare pressione sui paesi del mondo affinché interrompano le politiche di condiscendenza, le trattative sul nucleare, il silenzio sui crimini del regime. Molti paesi lo stanno facendo: la Germania e l’Islanda hanno chiesto la convocazione di una commissione di inchiesta internazionale sull’Iran, mentre il Canada ha vietato l’ingresso nel paese ai pasdaràn, molti dei quali, fiutando il pericolo, si preparano a fuggire all’estero, e ha congelato i loro conti correnti. E poi chiediamo che venga riconosciuto il diritto della popolazione all’autodifesa. In Iran dal 2014 operano le unità di resistenza affiliate ai Mujaheddin del Popolo, la principale organizzazione del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana. Queste formazioni per un verso svolgono un ruolo politico di agitazione e di propaganda, oggi, ad esempio, tentando di dare parole d’ordine  comuni alle manifestazioni in tutto il paese, e compiendo anche azioni dimostrative – a giugno, nell’anniversario della morte di Khomeini, hanno sfidato il regime distruggendo 5.000 telecamere di sorveglianza negli edifici pubblici e nello stesso mausoleo di Khomeini. Per un altro però sono impegnate concretamente a contrastare la repressione, individuando gli agenti infiltrati nelle manifestazioni e attaccando le sedi delle forze di sicurezza.

A differenza del 2009 questa volta le manifestazioni di solidarietà in Italia e in Occidente sono state numerose. Ma in generale le classi dirigenti americane ed europee, a differenza di altre circostanze simili in passato, non sembrano aver scelto definitivamente se augurarsi il crollo del regime o meno. Non temi che dietro l’angolo si nasconda il pericolo di essere abbandonati?

Il rischio c’è, naturalmente, soprattutto in un periodo come questo, in cui tutti cercano il gas, di cui l’Iran è ricchissimo, come se fosse oro. Anche l’Italia del resto è uno dei primi partner economici dell’Iran. Gli interessi ci sono. Ma pesa anche un altro aspetto. Molti paesi non stanno prendendo posizione perché sanno che l’Iran non è l’Iraq o l’Afghanistan, cioè un paese in cui si può intervenire e instaurare un governo fantoccio. Abbiamo un parlamento in esilio, rappresentato dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, l’organizzazione in cui gli attivisti come me si riconoscono, che gode di un consenso nella popolazione e ha contribuito a far sì che la situazione in Iran arrivasse a questo punto. E abbiamo un piano per gestire la transizione dopo un’eventuale caduta del regime e creare una repubblica democratica e popolare. Per questo, a mio avviso, molti paesi preferiscono non sporcarsi le mani intervenendo direttamente, ma aspettano di vedere che cosa succederà per poi trattare con chi governerà un paese ricco di risorse come l’Iran. In ogni caso credo che dopo 43 anni di oppressione gli iraniani non abbiano nulla da perdere e che siano disposti a pagare qualsiasi prezzo pur di cambiare la situazione. Il timer della Rivoluzione ormai è partito e non si fermerà.

L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 2 dicembre.

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