Medio Oriente
In direzione ostinata e contraria. Israele-Palestina, per esempio
“L’elemento popolare «sente», ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale «sa», ma non sempre comprende e specialmente «sente». I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra (…). L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed esser appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il “sapere”; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporto di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio” [Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, quaderno 11(XVIII), §. 67, p. 1505].
Sapere, comprendere, sentire. Meglio: sapere senza comprendere e comprendere senza sentire, sono condizioni mentali che indicano una falsa postura e che soprattutto producono false percezioni. Molto pericolose soprattutto quando in partita c’è la dichiarazione di voler capire per davvero qualcosa nei conflitti sociali, culturali, politici, simbolici.
Ogni riferimento alla questione di «prendere posizione» rispetto alla questione israelo-palestinese è deliberatamente voluto.
Proprio per questo, uno dei meriti di Israele – Palestina. Oltre i nazionalismi (e/o) è di non fondare un partito, ma di porre questioni ineludibili a tutte le parti e opinioni in campo. In breve compiere una operazione intellettuale. Anzi, ancora meglio: dare un volto a che cosa debba essere l’intellettuale oggi: indicare questioni che ciascuna delle parti in conflitto e in discussione non può scantonare o eludere.
Per farlo Bruno Montesano ha lavorato rielaborando la riflessione aveva proposto sulle pagine web della rivista “Il Mulino” nel novembre scorso e ha raccolto testi, alcuni già pubblicati, in Italia e fuori d’Italia, altri (Maria Grazia Meriggi, Mario Ricciardi, Luigi Manconi, Widad Tamini) invece, chiesti in relazione all’obiettivo di questo breve ma indispensabile libro.
Quale dunque l’obiettivo? Quello principale è non cadere nella propaganda. Ovvero non eludere le complicazioni e dunque non ridurre la scena complessa del confronto politico, dello scontro anche emozionale a una descrizione di parti in commedia. La storia non è un giallo, con un colpevole e un innocente, in cui sono separati e distinti, con taglio verticale, i «buoni» dai «cattivi».
Dunque il primo tratto – comunque quello che attraversa tutti gli interventi di presenti nel volume – consiste nel porre domande, nel dimostrare che il linguaggio che usiamo (a cominciare da «apartheid», come ricorda Anna Momigliano) non solo è fallace, ma contraddittorio. Oppure come sottolinea Maria Grazia Meriggi ricordando opportunamente molte delle questioni proposte molti anni fa da Zeev Sternhell nel suo Nascita di Israele (Dalai) che la realtà sul territorio, a cominciare dalle trasformazioni sociali ed economiche in corso da almeno un trentennio, chiede che si abbandoni tanto l’immaginario colonialistico classico come quello anticolonialistico.
Complementarmente è lo stesso invito a riflettere che propone Mario Ricciardi quando propone una rilettura delle riflessioni di Albert Camus a proposito dei sentimenti degli algerini nel la lotta contro il colonialismo francese. La convinzione di Camus è che nello scontro che si apre con il processo di decolonizzazione, non sia sufficiente risolvere tutto nell’abbandono delle colonie e nella consegna della gestione della cosa pubblica e del loro destino al nazionalismo dei colonizzati, ora finalmente liberi. Perché il rischio, come tanti anni fa metteva in guardia James Clifford, è di essere attratti e affascinati dalla purezza.
L’esperienza, del colonialismo, infatti, non si risolve solo nelle due figure dei colonizzatori e dei colonizzati come due entità astratte, «naturalmente» opposte e mai «contaminate». Alla rovescia: quelle esperienze riflettono o esprimono la storia di una cultura ibrida, di un meticciato culturale che è anche la costruzione di una generazione di appartenenti al mondo dei colonizzatori.
La sfida rappresentata da quella dimensione è il percorso di non pensarsi «frutti puri», ma sempre il risultato di una meticciato sociale, culturale, linguistico, e mentale.
Non solo. Serve anche a ricordarci che quella dimensione travolta dai neonazionalismi in atto nei territori sia delle ex-potenze coloniali, come delle ex colonie ora potenze emergenti, o dei senza terra, o delle realtà «una volta imperiali» che rimpiangono con nostalgia il loro passato è lì a dirci che quel processo non è stato risolto allora e, periodicamente, torna a riempire l’agenda di questo nostro tempo con i suoi fondamentalismi culturali e i suoi etnicismi politici.
E ancora che la visione di vittime da una sola parte – come richiama Luigi Manconi – legittimi una visione manichea di una realtà molto più complicata dove si finisce per non fare i conti con il tratto culturale e politico dei fondamentalismi che caratterizzano i radicalismi religiosi di tutte le parti cin conflitto.
Non solo altro aspetto su cui Manconi insiste che quella che è nata il 7 ottobre è una conflittualità che non sarà superata facilmente perché le prime vittime politiche del nuovo tempo iniziato quel giorno, sono proprio in quelle frange politiche e culturali in tutti e due i campi che avevano fino a quel momento nel loro vocabolario culturale, prima ancora che politico il tema del rispetto dell’altro e che comunque l’obiettivo fosse costruire una dimensione di destino condiviso costruito cooperativamente.
Non senza prendere la misura del disastro che non è la rivendicazione nazionalista né di chi ha subito l’attacco del 7 ottobre, né di chi patisce le conseguenze della risposta a quell’atto. Ma la presa di misura di un lungo percorso che mentre andava alla ricerca del proprio paradiso in terra solo per la propria parte, generava le premesse di quella violenza
Forse l’intervento più significativo, anche per ciò che non abbiamo messo nel conto in questi mesi e non abbiamo preso in carica è quello di Arielle Angel. La sua, per molti aspetti, è una voce che nella riflessione pubblica mi sembra abbia un’eco nelle parole di Luigi Manconi. Ma il fatto che a esprimersi sia una persona direttamente coinvolta in quel processo di dialogo, che percepisce non solo interrotto, ma fallito, rende quella testimonianza di dolore, prima ancora che di sconfitta molto centrale nel nostro tempo e forse segna anche profilo delle difficoltà e del dolore che accompagnerà il tempo a venire (non solo in quella parte di mondo, vorrei osservare pacatamente). Quella sensazione riguarda, anche se non ce lo diciamo, una condizione che viviamo noi, qui.
Certo riprendendo la sollecitazione di Camus si può – anzi meglio: si deve – non mollare e dunque come il suo Sisifo, di fronte al masso caduto e precipitato in basso nel fondo della caverna dopo aver provato con impegno e con fatica a spingerlo verso la vetta, l’unica soluzione non può che essere deliberare di tornare giù nel fondo della caverna e riprendere a spingerlo di nuovo verso la vetta.
Ma di nuovo provando a fare memoria del fallimento precedente. La politica è anche tecnica, ma non è né solo, né prevalentemente tecnica o retorica. La politica è prima di tutto invenzione, capacità di mettere in moto sensibilità, parole, atti, altrimenti muti. E per questo è anche sorpresa. La possibilità di futuro non sta scritta da nessuna parte. È nella voglia di aiutarlo a prendere forma. Quasi sempre «in direzione ostinata e contraria».
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