Ambiente
Il giorno dopo: l’Eco-cidio, a Gaza, oltre a tutto il resto
«Fermi qui. Seduti qui. Permanenti qui.
Eterni qui. Abbiamo un obiettivo soltanto:
essere» (Mahmud Darwish)
Il giornalista diplomatico della BBC, James Landale, il 26 maggio ha inteso dare inizio ad una riflessione molto importante: quale giorno dopo la guerra di Gaza?
Il suo è un punto di vista politico e istituzionale. Per il quale avanza anche qualche sospetto, riferendo le parole di un diplomatico occidentale: il rischio è che non ci sia nessun giorno dopo.
Ma c’è un altro punto di vista che è poco considerato: le condizioni materiali della vita fisica di un eventuale giorno dopo.
Il giornale britannico Guardian parla apertamente di ecocidio per Gaza: decimazione dell’ecosistema, dell’umanità e della vita (ricordando, come diremo poi, che questo crimine ha impatti negativi su più livelli, il danno non è solo ambientale, può essere culturale, psicologico ed emotivo ed interessare le comunità stesse, specialmente quando lo stile di vita di una comunità è profondamente connesso all’ecosistema colpito).
E’ un racconto che nessun media ha fatto in Italia.
L’unico ad averla ripresa è Paolo Pileri, ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, sul numero di maggio di Altreconomia.
Secondo «le inchieste pubblicate dal Guardian a gennaio e a fine marzo di quest’anno, il 50% delle colture arboree sono state distrutte così come il 40-48% dei campi seminativi e il 23% delle serre. Quasi tutti gli orti sono stati devastati e oltre il 40% dei boschi perso. Tutto distrutto. Prima della guerra, l’insieme di aree agricole e di orti occupava una superficie di circa 170 chilometri quadrati. A fine marzo ne rimanevano circa cento. Oltre alla cancellazione delle colture, i suoli spogli sono stati oggetto di pesante compattazione a causa del passaggio di carri armati e veicoli militari pesanti. Questo porterà a un aumento dell’erosione idrica dei suoli, per via del maggior ruscellamento superficiale e di conseguenza a un’ulteriore perdita di suolo fertile (Certini et al. 2024). Inoltre, i suoli di guerra che sopravviveranno saranno pieni zeppi di proiettili e contaminanti persistenti, potenziali generatori di malattie gravi. La mancanza di copertura vegetale faciliterà la penetrazione di sostanze tossiche. Le montagne di rifiuti e liquami abbandonati rilasceranno sostanze pericolose nei suoli diffondendo gravi malattie. Come se non bastasse, è in atto una pratica folle che consiste nel bruciare le colture, i boschi e gli ulivi (si chiama arboricidio) come ha spiegato Moni Ovadia in un’intervista pubblicata su il manifesto il 4 aprile in cui ha denunciato quel che fanno i soldati israeliani in Cisgiordania. Le “esigenze” militari dell’aggressore lo hanno autorizzato a realizzare una nuova ed enorme strada che ha tagliato in due la Striscia, cancellando tutto quel che incontrava. Oggi i paesaggi sono irriconoscibili e desertici».
Sono dati ricavati dall’analisi accurata di foto satellitari e non lasciano dubbi. Confermati dalle testimonianze di numerosi gazawni che hanno raccontato di essere fuggiti da casa e, dopo essere tornati, di non riuscire più ad orientarsi per ritrovarla in un paesaggio lunare di sola distruzione.
Chi legge può farsi un’idea sua di quei rendering progettuali, già resi noti, con immagini della ricostruzione di Gaza da parte di agenzie immobiliari israeliane per consegnarla ai coloni.
Distruggere l’eecosistema della Striscia significa condannare per secoli questa terra a vivere priva di ogni forma di vita con acqua inquinata e destinata alla fame e alla morte.
Altroché occupazione e nuovi insediamenti.
Per altro vale la pena anche di aggiungere che il legame con la terra per il popolo palestinese è un costitutivo dell’identità profonda. Come per molti popoli abituati a vivere di agricoltura e di allevamenti.
La desertificazione e la deliberata e sistematica distruzione del suolo di Gaza, ben oltre qualsiasi necessità di difesa, da parte dell’esercito israeliano, ha delle componenti psicologiche ed emotive molto rilevanti. Un vero e proprio trauma destinato a perpetuarsi ben oltre le vittime di questi giorni per le generazioni successive. Un’altra violenza oltre quella delle bombe e delle armi che perpetua un odio di cui non si vede la fine generativa di una risposta reattiva altrettanto violenta a quella subita.
«Scrivi!
Sono un arabo
carta d’identità numero cinquantamila […]
spogliato delle vigne dei miei avi
e della terra che coltivavo
con tutti i miei figli […]
Scrivi
in cima alla prima pagina
Io non odio i miei simili
e non aggredisco nessuno.
Ma… se avessi fame
mangerei la carne del mio usurpatore. Attento… sta’ attento
alla mia fame
e alla mia rabbia!» (Mahmud Darwish)
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