Medio Oriente
Iraq, nel limbo degli sfollati scompare la distinzione fra migranti e rifugiati
ERBIL (Iraq) – Di domenica sera le strade del quartiere cristiano di Erbil, Ainkawa, sono affollate. Il proprietario di un piccolo negozio di alimentari dice, guardando i passanti, che presto molti se ne andranno. Molti, infatti, sono abitanti di Mosul e dintorni, che hanno cercato un rifugio nella regione curda irachena dopo l’avanzata dello Stato Islamico. Ora che diversi villaggi a predominanza cristiana, come Qaraqosh e Bartella, sono stati liberati, ci si aspetta che la maggior parte di queste persone ritornino a casa, come suggerisce appunto il proprietario del negozio. Sarà veramente così?
La regione curda irachena conta attorno a 5 milioni di abitanti e, secondo i dati dell’UNHCR, ha accolto 1,5 milioni di sfollati iracheni, ai quali andrebbero aggiunti i rifugiati siriani e i nuovi arrivi dopo l’inizio dell’offensiva contro lo Stato Islamico. La relativa stabilità della regione ha attirato molte delle persone che si sono trovate ostaggio prima di una crisi apparentemente senza fine, come quella irachena, e poi della violenza scatenata dallo Stato Islamico. Ma lo scenario è ancora più complesso: le tre province curde di Erbil, Sulaymaniyah, e Dohuk sono diventate contemporaneamente luogo di rifugio e luogo di partenza per molti iracheni. Questi ultimi nel 2015 sono stati il terzo gruppo più numeroso ad arrivare in Europa, dopo siriani e afghani.
Il problema non è solo la guerra. Fino al 2013 a Erbil il sogno di una Abu Dhabi curda era palpabile. Lo si percepiva dagli scheletri dei palazzi in costruzione e dall’espansione della città. La diaspora curda faceva ritorno, attratta dalle prospettive di una crescita economica che gettava anche le basi per l’indipendenza politica. Nel 2016 di quel sogno rimangono solo gli scheletri, rimasti tali, dei palazzi in costruzione. La caduta del prezzo del petrolio, lo Stato Islamico alle porte, le continue dispute con Bagdad sul budget regionale e una cattiva gestione delle risorse – un tema spesso dimenticato – hanno minato le prospettive di sviluppo. Il risultato è stato doloroso. I salari dei dipendenti pubblici, la classe media curda, sono stati tagliati o non vengono pagati regolarmente e alcune categorie come quella degli insegnanti iniziano a protestare.
Non c’è lavoro, non solo per gli sfollati iracheni ma anche per la popolazione locale. Una corsa in taxi a volte può essere illuminante. M., mamma turcomanna e papà arabo, mi racconta che è tornato da poco dalla Lituania, dove gli è stato negato l’asilo politico con la motivazione che la regione curda è al momento stabile.
Le nostre categorie di rifugiato politico e migrante economico spesso non corrispondono a realtà: la guerra ha lasciato nell’economia ferite profonde, difficili da rimarginare. Il desiderio di partire di M. è condiviso da molti giovani che ho incontrato. Lui mi saluta dicendo “bella Italia”, ma non sa della vita dura dei moltissimi giunti nel Bel paese come migranti o rifugiati.
La questione comunque non è neppure esclusivamente economica. Entrare nella regione curda è per molti versi come attraversare un confine nazionale, soprattutto per chi è arabo. Il processo attraverso cui gli sfollati iracheni, a tutti gli effetti concittadini, entrano nella regione curda è complesso e per alcuni versi non chiaro. Un recente rapporto di Human Rights Watch denuncia, ad esempio, che alcuni giovani uomini in fuga da Mosul e Hawija, dove si avvicina l’operazione militare contro lo Stato Islamico, sarebbero detenuti in modo arbitrario. C’è una questione di sicurezza, ovviamente. Prevenire l’infiltrazione di militanti o simpatizzanti dello Stato Islamico è una priorità del Governo Regionale Curdo. Ma c’è anche una più ampia questione politica: le tensioni tra la regione e il resto del paese si sono acuite negli ultimi anni e si riflettono nella società, anche per via della retorica settaria di alcuni politici.
Si tratta quindi di violenza, certo, ma anche di aspettative per il futuro interrotte e di un’integrazione socio-politica vacillante, tutti elementi che spingono parte degli sfollati iracheni presenti nella regione curda a continuare il viaggio verso l’Europa. Una decisione che per alcuni risale al momento stesso in cui hanno abbandonato le loro case, ma per altri è stata dettata dall’esperienza dello sfollamento. Il grado di distruzione, causato dapprima dallo Stato Islamico e ora dall’offensiva contro di esso, lascia poi poche speranze di un prossimo ritorno nei luoghi di origine. E senza un maggiore supporto internazionale, la regione curda difficilmente riuscirà a sostenere l’attuale livello di assistenza agli sfollati iracheni.
Tutte queste complessità si perdono nel dibattito attuale sulla crisi dei migranti in Europa. Pecchiamo non solo di un fastidioso eurocentrismo, ma anche di una forte miopia nei confronti di un fenomeno, quello delle migrazioni forzate, che visto da qua non appare più come un’emergenza ma come un’esperienza ormai radicata nella vita quotidiana.
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In copertina, Campo UNCHR di Debaga, Erbil, Iraq – Foto di Dragan Tatic (CC)
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