Recep Tayyip Erdogan

Medio Oriente

I negoziati a Riyad disegnano il nuovo mondo saudita e il “declassamento” di Erdoğan

La presenza di Lavrov e Rubio a Riyad, a cui si aggiunge il successivo vertice arabo sulla situazione a Gaza, mostra il nuovo ruolo che l’Arabia Saudita si sta ritagliando nella politica regionale e globale

21 Febbraio 2025

In questi giorni di colloqui diretti tra Stati Uniti e Federazione Russa, Riyad è diventata il palcoscenico della (geo)politica mondiale. Per i sogni – anzi, per i progetti – di grandezza del principe ereditario saudita Muhammad bin Salman (MbS) si tratta di un grande successo, per quanto favorito dalle priorità dell’amministrazione Trump II, che si sono ben sposate con i desideri dei sauditi. Per un motivo o per l’altro, MbS può dire di essere riuscito a portare allo stesso tavolo russi e americani dopo anni in cui i contatti ufficiali erano pressoché azzerati, in particolare quelli tra figure di altissimo profilo come il Segretario di Stato americano e il ministro degli Esteri russo.

Il vertice di Riyad tra le delegazioni guidate da Lavrov e Rubio certifica non solo una capacità diplomatica di un certo livello (evidenziata dal fatto che si svolge sempre a Riyad il nuovo summit sulla situazione in Palestina), ma anche il ruolo che l’Arabia Saudita sta riuscendo a ritagliarsi nel panorama politico globale. In diverse occasioni i funzionari del Regno hanno rivendicato il loro diritto a mantenere aperti canali di comunicazione (e soprattutto opportunità di business…) con tutti gli attori internazionali, dalla Cina – principale acquirente del petrolio saudita – alla Russia – con cui Riyad coopera in seno all’OPEC+. Se durante l’amministrazione Biden il rifiuto saudita di piegarsi ai voleri americani in funzione anti-russa aveva portato a un raffreddamento delle relazioni saudo-americane, ora la scelta di Riyad sta pagando i dividendi. Se ci concentriamo sul Golfo Persico e sulle relazioni tra i Paesi del Gulf Cooperation Council, la scelta di Riyad come sede per i negoziati tra russi e americani pone l’Arabia Saudita in una posizione di rilievo rispetto a Doha, che ha avuto una funzione analoga per gli americani nel caso dell’Afghanistan e della guerra a Gaza, e soprattutto degli Emirati Arabi Uniti, che pure avevano mediato uno scambio di prigionieri tra Kiev e Mosca (come anche Riyad). La scelta di Riyad come sede di negoziati diretti tra russi e americani segna un punto a favore dell’Arabia Saudita nella competizione con Abu Dhabi, un fatto relativamente recente che si sostanzia sia in una concorrenza economica che nell’assunzione di posizioni politiche divergenti (si pensi alle guerre in Yemen e Sudan).

L’Arabia Saudita di MbS è intenzionata a porsi sempre più come un attore imprescindibile della regione e degli equilibri internazionali per trarne il massimo vantaggio possibile per la realizzazione dei propri progetti di sviluppo e diversificazione economica. L’approccio diplomatico saudita mira anche a mostrare agli alleati americani la “maturazione” della sua leadership, che è passata da scelte aggressive e controproducenti come la guerra in Yemen e l’assassinio di Jamal Khashoggi, alla mediazione in diversi conflitti, in Medio Oriente e non solo. Da troublemaker (piantagrane), come titolava quasi due anni fa il Financial Times, a problem solver. Un simile cambiamento del più grande e più ricco Paese del Golfo, la cui importanza è ingigantita dal ruolo simbolico che esso ricopre per l’intero mondo islamico, non può essere sottovalutato.

Ma la scelta di Riyad come sede dei colloqui sulla guerra in Ucraina ha anche un altro esito, quasi banale ma spesso inosservato: quello di evidenziare gli enormi mutamenti rispetto alle prime fasi della guerra in Ucraina. Ricordiamo bene, infatti, come per lunghi tratti fu la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan a intraprendere gli unici seri tentativi di mediazione tra Russia e Ucraina, che sfociarono nella firma degli accordi sul commercio di grano nel Mar Nero. Gravi erano le accuse rivolte ad Ankara di essere più sensibile ai desiderata moscoviti che leale nei confronti dell’Alleanza Atlantica. Accuse motivate dal rifiuto di Erdoğan di imporre sanzioni alla Russia, con cui il reis intrattiene importanti legami commerciali, e dal blocco temporaneo imposto all’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia. Inoltre, proprio con la Russia Erdoğan coordinava le proprie azioni in Siria, dove pure i due Paesi erano su posizioni differenti. L’intesa personale tra Vladimir Putin ed Erdoğan, poi, eclissava il fatto che soprattutto all’inizio del conflitto in Ucraina furono i famigerati droni turchi a contribuire in modo decisivo alla resistenza ucraina. Il “declassamento” della Turchia come potenziale hub di mediazione è suggellato dal fatto che il presidente Volodymyr Zelensky, grande (e furente) escluso dal tavolo di Riyad, ha scelto proprio Ankara come destinazione alternativa, ciò che evidenzia anche il vero ruolo turco e lo stato più profondo delle relazioni russo-turche. La fine della Siria di Bashar al-Asad, certamente favorita da Ankara, ha mostrato inequivocabilmente come, alla lunga, gli interessi divergenti di Russia e Turchia prevalgono anche sui buoni rapporti tra i leader dei due Paesi. Non solo: con la prospettiva di una chiusura del conflitto in Ucraina che potrebbe configurarsi come una vittoria russa, il timore di Erdoğan è che Mosca torni a essere una presenza troppo ingombrante nel Mar Nero, un punto di scontro con i russi fin dai tempi degli imperi ottomano e zarista. Ecco perché il presidente turco ha ribadito che la sovranità sulla Crimea è ucraina, non russa. Quale che siano le preferenze turche, con ogni probabilità la decisione verrà presa a Riyad, non ad Ankara. Per il Medio Oriente è un’ulteriore certificazione che il baricentro politico si sta spostando verso il Golfo Persico.

 

Claudio Fontana è analista presso la Fondazione Internazionale Oasis

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