Medio Oriente
I bambini morti e i 13 milioni senza una scuola, quindi senza futuro
Nel mezzo dello shock pubblico per le foto dei bambini morti in spiaggia, dopo disperate fughe dalla guerra, è arrivato un rapporto firmato dalle Nazioni Unite. Un documento che lancia un ulteriore allarme sulla condizione dei ragazzi che vivono in Paesi mediorientali: 13 milioni di bambini non hanno più accesso all’istruzione a causa dei conflitti. È un dato straziante che racconta un futuro già cancellato per 13 milioni – ripeto 13 milioni – di ragazzi da cui dovrebbe ripartire una speranza.
Il rapporto delle Nazioni Unite dovrebbe suscitare indignazione con una imponente mobilitazione politica e sociale. E tutto ciò dovrebbe avvenire prima che si trasformi in un problema da copertina, magari con qualche foto di una scuola sventrata da qualche bomba con una serie di bambini uccisi; o chissà magari si comprenderanno queste statistiche per raccontare di quei giovani disperati che finiscono per abbracciare la causa dell’Isis, o di qualche altra organizzazione estremistica. Credo, insomma, che in questa ricerca ci sia la spiegazione a numerosi problemi.
Peter Salama, direttore dell’Unicef in Medio Oriente e Nord Africa, ha spiegato: «Non è solo il danno fisico fatto alle scuole, ma la disperazione avvertita da una generazione di studenti che vedono le loro speranze e il loro futuro in frantumi». Non si sbriciolano solo gli edifici, ma vengono incenerite le già incerte prospettivi di milioni di ragazzi. In questo moto di grande umanità che sta attraverso il dibattito pubblico, con lo strazio delle piccole vittime restituite dal mare, sarebbe necessario riflettere sulle cifre fornite dall’Onu. Perché, come sempre, i numeri si traducono in dolori personali, in storie che nel caso specifico prendono la forma di fatti terribili. Come quello testimoniato dall’Unicef in Yemen, dove il personale della scuola e quattro bambini sono stati uccisi durante un attacco nella città di Amran. Lontano dagli occhi e dal cuore dell’Occidente.
Eppure questo non è un caso isolato, non è l’apice della barbarie come si potrebbe immaginare e – in un certo senso – sperare. Si tratta, purtroppo, della normalità, di una tragica routine: le scuole, ritenute il cuore della fioritura culturale e della speranza di rinascita, si sono trasformate nei bersagli preferiti dai combattenti nelle zone flagellate dalle guerre. Decine di migliaia di insegnanti, 52mila stando al rapporto, sono stati costretti alla fuga e oggi figurano tra i rifugiati che cerca riparo in Europa. «L’uccisione, il rapimento e l’arresto arbitrario di studenti, insegnanti e personale educativo sono diventate comuni», rivela il documento redatto dalle Nazioni Unite. Una sintesi spietata a cui si aggiunge l’aspetto numerico: in totale sono stati certificati oltre 200 attacchi a scuole, tra Libia, Siria, Sudan, Yemen, Iraq e Palestina.
E, gira e rigira, quando si parla di Medio Oriente si finisce quasi sempre nella Striscia di Gaza, dove 281 edifici scolastici sono stati danneggiati e otto risultano completamente distrutti. «I miei figli sono rimasti feriti in una scuola. Hanno visto persone con mani o gambe mancanti e con volti e occhi feriti. Loro non vedono più la scuola come un luogo sicuro», ha affermato una donna di Gaza. Ed è davvero superfluo aggiungere altro.
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