Medio Oriente
Giorno della Memoria dei caduti: israeliani e palestinesi uniti dal lutto
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Cara Fiammetta,
posso rivolgerti una domanda stupida? Perché in questi giorni a Gerusalemme, ma immagino ovunque, la gente va in giro con le bandierine di Israele attaccate ai passeggini, agli specchietti e ai finestrini delle auto? So che ci avviciniamo al Giorno dell’Indipendenza, ma personalmente le trovo di una certa cafonaggine… Ci sarà pure un altro modo di dimostrare attaccamento alla patria senza necessariamente ostentare una bandiera che per molti arabi rappresenta il simbolo dell’occupazione?
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Come al solito, paese che vai, usanza che trovi, e il giorno dell’Indipenenza, in Israele come nel resto del mondo, dagli USA all’Indonesia, tranne che in Italia, che diventa patriottica solo durante i Mondiali, si sfoggia con orgoglio la bandiera del proprio paese.
Il lato “cafone” della cosa sta nel fatto che quello che per gli israeliani rappresenta il giorno dell’Indipendenza per i palestinesi rappresenta la “nakba”, ovvero la “catastrofe”, scaturita dai centinaia di migliaia di morti e profughi a seguito della guerra cominciata, proprio il giorno dopo la dichiarazione di Indipendenza, il 14 maggio 1948, quando i paesi arabi limitrofi hanno attaccato Israele e le cui conseguenze hanno lasciato tragici strascichi fino ai nostri giorni. E la cosa più triste di tutta questa storia sono il numero di morti, da allora fino ad oggi, da entrambe le parti.
Per questo mercoledì scorso, in occasione della vigilia del Giorno della Memoria per i caduti delle guerre, arabi e israeliani provenienti da tutto il paese e anche dalla Cisgiordania, si sono ritrovati assieme al Parco Yeshua di Tel Aviv per ricordare i morti di ambe le parti al fine di impedire che ce ne siano altri, perseguendo un progetto di pace, come unica soluzione perseguibile in questo conflitto che va avanti da 70 anni.
From: susan dabbous
To: fiammetta martegani
Cara Fiammetta,
credo che sia davvero difficile fare i paragoni tra la nascita di una nazione come Israele e le altre nazioni occidentali. Nessuna altra nazione, infatti, è sorta da un olocausto e a nessuna nazione è stato concesso, dalla comunità internazionale, un territorio già abitato, solo per colmare un immenso, gigantesco, disgustoso, senso di colpa storico.
Ciò detto, con tutta la simpatia che provo per le vittime di una delle più grandi tragedie umane, non capisco davvero con quale legittimità, a 70 anni dalla sua fondazione, si possa festeggiare oggi questa specie di fortezza che è diventato il sogno della terra promessa.
Con quale leggerezza si accendono i barbecue nei parchi di Gerusalemme a poca distanza delle case dei palestinesi che perdono il diritto di residenza se si allontano per qualche anno dalla loro città e che non possono ricevere visite dai loro parenti da Gaza e dalla Cisgiordania perché qualcuno, che giovedì ha festeggiato con molti fuochi d’artificio, li ha segregati in un regime di apartheid?
Capisco le celebrazioni per il Giorno della Shoah e il Giorno della Memoria dei caduti, ma la festa che ricorda la fondazione di uno stato irrisolto, dai confini mutevoli, controversi e militarizzati no, non la capisco: non c’è davvero niente da festeggiare secondo me.
Si potrà festeggiare, un giorno, quando la felicità di questo paese, dove forse c’è il più alto tasso di autostima del mondo, non coinciderà con la violazione dei diritti basilari di una popolazione che un suo paese ancora non ce l‘ha.
Non mi si fraintenda, perché non sono tra quelli che mette in discussione la legittimità dello Stato d’Israele, anzi, visto che negli anni ‘40 non esisteva certo uno stato palestinese nel senso moderno del termine, ritengo, come molti, che di spazio ce n’era abbastanza per tutti e due. Ma dimmi piuttosto come è andata la cerimonia del “Alternative Memorial Day”? Ho letto che hanno partecipato oltre 8.000 persone.
from: fiammetta martegani
to: susan dabbous
Carissima Susan,
è molto complicato, in un post come questo, ripercorrere tutti i 70 anni di storia di questo conflitto, le cui radici affondano ben prima, e che soprattutto coinvolgono molti altri Stati che, ancora oggi, usano il popolo palestinese (assieme a quello israeliano) come pedine per un gioco di poteri molto complesso e pericoloso.
Per rispondere alla tua domanda, la cerimonia di mercoledì è stata davvero commovente, sia per il grandissimo numero di ebrei e musulmani arrivati da tutti e due i paesi, sia per coloro che sono saliti sul parco ribadendo l’importanza del dialogo fondato sulla comprensione della sofferenza dell’altro, poiché, finché si continuerà a giocare al gioco del “chi ha iniziato prima” questo conflitto non avrà mai fine e continueremo a perdere vite da entrambe le parti.
Piuttosto, bisognerebbe cambiare paradigma e fare a gara per “chi finisce prima”.
Per questo, per concludere, vorrei utilizzare le parole dello scrittore israeliano David Grossman, che ha perso suo figlio Uri, 12 anni fa, durante la Seconda Guerra del Libano, e che ieri è salito sul palco dicendo: “quanto sarebbe facile, in questa situazione, cedere allo sdegno, alla rabbia, alla brama di vendetta. Ma ho scoperto che ogni volta che sono tentato dalla rabbia e dall’odio, immediatamente mi accorgo di smarrire il contatto quotidiano con mio figlio, che ancora sento vivere in me. Qualcosa si inceppa. Allora ho preso questa decisione. Ho fatto questa scelta. E credo che tutti coloro che sono qui questa sera hanno fatto anche loro la medesima scelta. E io so che persino nel dolore esiste il respiro, la creatività, la capacità di fare il bene. Il lutto non solo isola, ma sa anche unire e rafforzare. Persino i nemici storici, come gli israeliani e i palestinesi, possono stringere tra di loro un rapporto che nasce dal lutto, e a causa di questo. […] Spero che tra settant’anni i nostri nipoti e pronipoti saranno qui, israeliani e palestinesi, e ciascuno di loro canterà la sua versione dell’inno nazionale. Ma c’è un verso che potranno cantare insieme, in ebraico e in arabo: “Una nazione libera nella nostra terra.” E forse allora, nei giorni a venire, questo auspicio sarà finalmente una realtà per entrambi i nostri popoli.”.
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