Medio Oriente
Gerusalemme abbandonata
From: Fiammetta Martegani
To: Susan Dabbous
Carissima Susan,
lo scorso 13 novembre si è svolto a Gerusalemme il ballottaggio per l’elezione del nuovo sindaco. La sfida all’ultimo sangue era tra il giovane e laico Ofer Berkovicz (35 anni) ed il religioso e nazionalista Moshe Lion (57 anni).
Come ben sai,alla fine ha vinto quest’ultimo, pur se per una manciata di voti: circa 6.000, con una maggioranza che rasenta il 51%.
Complici una serie di fattori tra cui il fatto che, per far vincere il primo, fossero determinanti i voti dei palestinesi di Gerusalemme Est che, invece, si sono astenuti in massa, mentre, al contrario, gli ebrei ortodossi, una parte cospicua della popolazione di Gerusalemme, hanno di fatto decretato la vittoria di Lion.
Gerusalemme dunque volta sempre più a destra, lasciandosi alle spalle non soltanto la parte palestinese della città, ma anche quella laica che, del resto, negli ultimi decenni ha lentamente, ma neanche troppo, cominciato ad abbandonare la Città Santa per Sin City.
Molti tra i miei amici di Tel Aviv, per esempio, sono nati a Gerusalemme ma i loro genitori, già a partire dagli anni Novanta e sempre di più dopo il 2000 e con lo scoppio della Seconda Intifada e gli attentati all’ordine del giorno, hanno preferito abbandonare la città nelle mani dei vari estremisti, sia da una parte sia dall’altra, e cercare “rifugio politico” nella “bolla” di Tel Aviv.
Detto questo, se da un lato Gerusalemme è stata abbandonata dall intellighenzia ebraica, dall’altro anche il totale disimpegno politico del popolo palestinese, nelle elezioni municipali, come del resto anche in quelle nazionali, non fa che alimentare una spirale perversa.
E tu, Susan cara, dopo aver trascorso 5 anni a Gerusalemme, come la vedi tutta questa storia?
From: Susan Dabbous
To: Fiammetta Martegani
Cara Fiammetta,
mi dispiace molto che abbia vinto un ultra religioso come Moshe Lion ma, credimi, anche prima, le mie reticenze verso NirBarkat, ex-sindaco di Gerusalemme destrorso e pseudo-laico, che ha lasciato la politica municipale per passare al partito Likud di Bibi, erano fortissime.
Tanto per farti un esempio, durante la cosiddetta “Intifada dei coltelli” aveva suggerito alla gente di armarsi spontaneamente per autodifesa: una soluzione alla Borghezio, per intenderci, che, fortunatamente, a parte rari episodi disparati, non è stata presa alla lettera.
Quanto all’astensione in massa dei palestinesi dal voto: segue una consolidata tradizione di boicottaggio basata sul principio di non legittimazione delle autorità israeliane.
Questo perché, come noto, i palestinesi di Gerusalemme godono sì del diritto di voto alle elezioni municipali (del cui comune per altro pagano le tasse) ma non godono dei diritti fondamentali come quello di cittadinanza.
In altre parole, se un palestinese si allontana per un lungo periodo da Gerusalemme per ragioni personali (salute, studio, lavoro, famiglia) perde la sua residenza, cosa che non accade invece ad un israeliano che parte per studiare all’estero, ad esempio.
Negli ultimi anni sono molti, comunque, i cittadini arabi di Gerusalemme ad essersi posti la questione del vantaggio ad avere una rappresentanza in consiglio municipale e non a caso sono state proposte delle liste e dei candidati che hanno tentato (pur non facendocela) ad entrare in politica, anche perché politici e leader religiosi, sia musulmani e che cristiani, invitano a boicottare al voto.
Le resistenze sono ancora fortissime e anche chi, ormai stanco della totale inefficacia dei politici dell’ANP, vorrebbe votare qualcuno di nuovo, spesso non lo fa per paura.
From: Fiammetta Martegani
To: Susan Dabbous
Carissima Susan,
“paura” di chi? Quali sono le ripercussioni a cui potrebbero andare incontro?
Te lo chiedo perché questo fenomeno generale di boicottaggio alle elezioni da parte dei cittadini arabi israeliani non riguarda soltanto le municipali ma anche le nazionali, con tutte le conseguenze che ti puoi immaginare, anche dal punto di vista macroscopico per quanto riguarda il conflitto in tutte le sue declinazioni, inclusi i vari interventi bellici.
La popolazione araba israeliana rappresenta infatti quasi il 25% della popolazione israeliana, ragion per cui se, in teoria, tutti i cittadini arabi andassero a votare e anziché disperdere i propri voti in partitini vari votassero per il partito più forte ovvero Hadash, il partito arabo-israeliano, potrebbero raggiungere quasi un quarto dei seggi della Knesset e, cosa non da poco, risultare l’ago della bilancia per formare la coalizione governativa, ruolo che, invece, storicamente, è rivestito dai partiti religiosi che, pur con il loro risicato 10-14% dei seggi (a seconda degli anni) riescono non soltanto a tenere tutti gli altri partiti per le mani (per usare un eufemismo) ma, soprattutto, a legiferare dal blocco dei mezzi pubblici durante Shabbat a una serie di altre leggi a svantaggio non solo della popolazione araba ma di tutta la popolazione laica israeliana.
Per non parlare degli interventi bellici nei confronti della popolazione palestinese a Gaza di cui sono certa che gli arabi israeliani farebbero volentieri a meno.
Insomma, se, come sappiamo tutti benissimo, essere un arabo in Israele non è affatto cosa facile, tuttavia anche da parte loro diciamo che gli arabi non ce la mettono proprio tutta a rendere le cose più semplici.
Ma forse mi sbaglio?
From: Susan Dabbous
To: Fiammetta Martegani
Cara Fiammetta,
la paura è un sentimento individuale condizionato da una situazione sociale, esterna.
Ti faccio un esempio, un candidato palestinese alle ultime elezioni municipali di Gerusalemme si è ritirato dopo aver ricevuto minacce di morte, senza dimenticare che durnate i suoi comizi è stato piú volte aggredito con lancio di uova, oltre che verbalmente.
È ovvio che c’è una parte dell’intelligentia palestinese che si è detta: le cose vanno male a causa dell’occupazione ma la risposta dei nostri politici non è stata adeguata: proviamo a cambiare.
La risposta al “cambiamento” è stata però piuttosto fredda o apertamente ostile. Sono d’accordo con te, in un mondo ideale il voto dei palestinesi potrebbe fare la differenza, ma va detto anche che, eccezioni a parte, la comunità araba non vive in modo integrato con quella israeliana.
Pur parlando ebraico e lavorando in aziende pubbliche o private, l’autista Egged palestinese non farà mai conversazione con i passeggeri israeliani. La farmacista palestinese nel Super Pharm si limita a dare i medicinali senza preoccuparsi troppo dei suoi clienti/pazienti. E viceversa. La lista è infintia: il netturbino arabo che pulisce Gerusalemme Ovest non viene ringraziato da chi quella parte della città l’ha sporcata all’inverosimile il giovedì sera. Lo studente palestinese alla HebrewUniversity di Gerusalemme, passeggia quasi sempre con un gruppetto di altri studenti palestinesi, così come fanno tra di loro gli studenti israeliani.
Tutti questi esempi della vita reale per dirti che a mio avviso non ci può essere una politica comune senza avere una vita comune.
Detto, questo, per saperne di più, consiglio a tutti di leggere questo articolo molto interessante sul perché dell’astensionismo dei palestinesi al voto, pubblicato da Etta Prince Gibson per Foreign Policy.
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