Medio Oriente

Gaza: una marcia al confine tra violenza e libertà

8 Aprile 2018

From :susan dabbous

To: fiammetta martegani

Cara Fiammetta,

Che tristezza leggere, in anticipo, della nuova strage che sta per avvenire a Gaza. I giornali non fanno che anticipare cosa avverrà al confine tra la Striscia e il territorio israeliano presidiato con carri armati e cecchini, autorizzati a sparare con proiettili veri «potenziali minacce». La settimana scorsa tra quelli che l’esercito israeliano ha chiamato «terroristi» c’era anche un povero contadino sparato al mattino prima ancora che la “Grande marcia per il ritorno” iniziasse, mentre lavorava la sua terra, sfortunatamente collocata vicino al confine. Ma in questo post non ti voglio parlare dei morti, vittime sacrificali necessarie in questo atroce gioco delle parti, piuttosto vorrei ricordare lo spirito con cui questa “Lunga marcia per il ritorno” è nata. C’è stato un momento non precisato, in mancanza di elettricità, di un governo unito, dei nuovi fondi americani, degli stipendi agli impiegati pubblici, dei permessi per uscire dall’enclave sotto embargo, insomma, c’è stato un momento all’apice della mancanza di tutto, che gli abitanti di Gaza si sono trovati a corto anche della speranza. È stato allora che hanno detto “NO”: toglieteci tutto ma non la speranza. Così è nata dalla società civile la voglia sentirsi vivi, di indire una protesta a oltranza, basata non sull’idea concreta di poter tornare nelle proprie case da dove sono sati cacciati nel 1948, piuttosto improntata sullo spirito di resilienza. Siamo qui, dicono i gazawi, soggiogati dalla politica locale e internazionale, ma non ci vogliamo arrendere.

Io trovo che sia un atto dovuto parlare dell’aspetto della resistenza pacifica, totalmente oscurata dalle violenze. E tu, sapevi che c’era anche una forte partecipazione disarmata alla lunga marcia per il ritorno?

From: susan dabbous

To: fiammetta martegani

Carissima Susan,

Ti confesso che in questi giorni non sono riuscita a seguire da vicino questa protesta pacifica come avrei voluto, per quanto, da anni, sia molto sensibile alla causa dei cittadini di Gaza anche perché ho una carissima amica, Tania Hari, che dirige Gisha, una Ong di avvocati israeliani che si occupano della tutela dei diritti umani a Gaza.

Sari Bashi e Kenneth Mann hanno fondato quest’organizzazione nel 2005, pochi mesi prima del disimpegno unilaterale voluto dall’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon.

Conosciuto anche come “Centro legale per la libertà e il movimento”, Gisha vede soprattutto nella libertà di movimento il punto di accesso principale a istruzione, sanità e opportunità economiche.

Oltre ai singoli casi legali, Gisha cerca anche di sensibilizzare l’opinione pubblica israeliana e internazionale.

La domanda che sorge spontanea, anche alla luce delle proteste in questi giorni, è, a parte la politica di separazione da parte di Israele, quale sia anche il ruolo dell’Egitto in tutto questo.

I tre punti di accesso a Gaza, infatti, oggi sono: Erez, Kerem Shalom e Rafah. I primi due controllati dall’Esercito israeliano che dal primo fa passare civili e dal secondo beni di prima necessità.

Il valico di Rafah invece, controllato dalle milizie egiziane, con l’ascesa al potere del generale Al-Sisi, che vede in Hamas il corrispettivo dei Fratelli Musulmani, è stato completamente bloccato, salvo casi “eccezionali”, come per esempio il pellegrinaggio alla Mecca, che per il governo egiziano, a quanto pare, è molto più importante che promuovere sanità, educazione o beni di prima necessità.

Per altro la chiusura del confine di Rafah da parte dell’Egitto ha di fatto raddoppiato le richieste di uscita attraverso il confine israeliano, per cui adesso, mi ha spiegato Tania,“ci siamo ritrovati con il doppio del lavoro di prima e con criteri sempre più ristrettivi da dover affrontare”.

Egitto a parte, a quanto pare gli obbiettivi politici dell’embargo sono dettati soprattutto dalla comunità internazionale, che da dodici anni sta aspettando che il popolo palestinese torni democraticamente alle urne, dopo le ultime elezioni, in cui Hamas é salito al potere a tempo “indeterminato”, nel 2006.

Quando chiedo a Tania come si immagina il futuro mi risponde che se pensa in una prospettiva macroscopica avrebbe già dovuto abbandonare la causa da anni.

Poi mi dice che per fortuna ci sono tutte le storie personali, i singoli casi di bambini in fin di vita che possono finalmente avere accesso alle cure mediche che gli permetteranno di continuare a vivere e forse un giorno di poter eleggere, democraticamente, un governo in grado di rappresentare, davvero, il volere e i diritti dei propri cittadini.

E tu, Susan, che vedi la situazione dal di fuori, come la vedi, e soprattutto, come ti immagini il futuro?

From :susan dabbous

To: fiammetta martegani

Io credo che avendo abbassato al massimo le aspettative di questo popolo, tra i più sfortunati sulla faccia della terra, forse sarà facile ottenere un accordo al ribasso. Ho parlato recentemente con un giornalista gazawi, e mi ha detto che la gente non ne può più di vivere intrappolata, di non poter uscire dagli strettissimi confini di Gaza, di non poter pescare oltre le tre miglia, non poter viaggiare, non poter importare prodotti normali, non poter cercare opportunità di lavoro.

Insomma, la gente non ne può più di vivere in una prigione a cielo aperto. E ora che l’esercito israeliano ha ottenuto quel che voleva: indebolire Hamas militarmente, e quindi anche politicamente, ora potrebbe negoziare direttamente con la gente e dire: avrete possibilità di movimento ma dovete rinnegare i vostri leader politici, che sono anche i vostri primi aguzzini. Hamas ha fallito, vi ha fatto marcire 12 anni tra la sabbia e l’acqua salata. Ora alzate le vostre voci contro di loro.

Ma questo purtroppo non accadrà mai. Perché la popolazione non può fare a meno dell’unica mano che li nutre anche se la protezione di Hamas è fatta di orribili compromessi.

La popolazione gazawi sarebbe forse disposta, concretamente e non certo idealmente, ad aderire a One State Solution, qualsiasi cosa pur di riguadagnare il diritto di movimento.

Ma Israele? È disposto a inglobare cinque milioni di palestinesi nel suo territorio?

From: susan dabbous

To: fiammetta martegani

Carissima Susan,

io non credo che, di fatto, la One State Solution sia tecnicamente praticabile e penso che, al contrario, sia solo un’operazione di propaganda per legittimare il perenne status quo.

Forse la via di uscita potrà realizzarsi solo quando la realtà supererà la fantasia, come proposto nella meravigliosa opera d’arte “Gaza Canal” di Tamir Tzodok, in mostra al Museo Eretz Israel di Tel Aviv, che propone di costruire un canale che divida per sempre Gaza da Israele facendo di Gaza un’isola felice, un paradiso ecologico e fiscale con cui attrarre turismo e investitori di tutto il mondo.

Per assurdo, e per quanto si tratti di un’opera paradossale e utopica, forse, oggi come oggi, solo l’utopia e il cercare di pensare out of the box potrà, concretamente, portare a una soluzione, “realistica”.

 

 

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