Medio Oriente
Israele al voto: fare la storia coi palestinesi o trincerarsi nel Novecento
«Una soluzione c’è, e sanno tutti qual è, nella realtà: bisogna solo capire quanti morti, quanti altri morti ancora, vorremo mettere tra noi e la pace». È passato ormai più di un decennio da quando sentimmo David Grossman pronunciare questa frase, disarmante nella sua incontestabilità, davanti a un auditorium di provincia attentissimo nel guardare a Israele e Palestina come si guarda a uno specchio significativo della propria storie e identità. Erano altri tempi, non c’è dubbio: perché nei primi anni Duemila, ancora fresco il trauma dell’11 Settembre e le campagne belliche, mediatiche e culturali che ne seguirono, ci sembrava che il Medioriente fosse il cuore del mondo e fosse il crocevia materiale e simbolico da cui passavano i nostri destini.
Tra allora e oggi, a spaccare in due la nostra contemporaneità, è arrivata una crisi economica – meglio: una crisi del nostro modello di sviluppo – come intere generazioni viventi non ne ricordano e il mondo è cambiato, soprattutto nella percezione che il mondo ha di sé. Le questioni di sopravvivenza alla crisi, la paura che fosse vicina la fine di un’idea sostenibile di benessere, hanno preso il sopravvento. Il punto di attenzione si è così spostato a Est. Verso la Cina e il Sudest asiatico, come luoghi in cui si costruisce una nuova borghesia che erode risorse finite a chi era convinto di poter essere piccolo borghese per sempre. Verso la Russia di Putin, dove un nuovo modello di “democrazia autoritaria” minaccia di imporsi come modalità realistica e non sprovvista di fascino per immaginare nuovi sistemi di governo, anche nel cuore dell’Europa. In ogni caso, in un altrove geopolitico rispetto a quel Medioriente rispetto al quale, per molte ragioni, anche l’amministrazione di Obama ha deciso un progressivo distacco di risorse economico-militari e di attenzioni politiche.
L’appuntamento elettorale di martedì 17 marzo, alle nostre coscienze di occidentali, giunge quindi come un’eco lontana che attraversa il Mediterraneo, e se qualche attenzione gli prestiamo è perché quello stesso mare, sostanzialmente la stessa tratta che distanzia l’Europa da Haifa e Tel Aviv, è solcata da disperati che cercano di lasciare il nord-Africa e dalle minacce in mondovisione dell’Isis. Di questa distrazione confusa abbiamo avuto appena poche settimane fa una pietosa dimostrazione dal doppio voto del Parlamento italiano che, in un misto di sciatteria e opportunismo, ha votato contemporaneamente due diverse mozioni incompatibili sul riconoscimento dello stato di Palestina: con un voto riconoscendola tout-court, e con l’altro vincolando lo stesso riconoscimento all’accettazione da parte dell’Autorità nazionale Palestinese dell’esistenza di Israele e della ripresa dei negoziati di pace. Senza neppure entrare nel merito della vicenda, è piuttosto chiaro il livello di attenzione e onestà intellettuale dedicato dalla nostra classe dirigente a quella terra. Eppure, per molte ragioni, l’appuntamento elettorale di questa settimana non dovrebbe lasciarci troppo indifferenti: per quel che dice della questione mediorientale e anche, se è consentito ricordarlo, per quel che dice di noi e della nostra politica estera.
In Israele, infatti, si fronteggiano in quest’occasione elettorale candidati e coalizioni che riportano al centro della scena mondiale la “questione palestinese” e il relativo processo di pace. Isaac Herzog, il candidato del centrosinistra a guida laburista e figlio dell’ex presidente della Repubblica e “padre della patria” Chaim Herzog, ha infatti rimesso al centro dell’agenda politica la ripresa dei negoziati di pace. In questo quadro si capisce la ripresa di un dialogo esplicito con Abu Mazen, dopo che negli ultimi anni il Partito laburista – quello di Shimon Peres e di Itzahak Rabin –aveva spostato la propria attenzione sulle questioni sociali economiche e sindacali, lasciando di fatto il campo della trattativa di pace al nuovo centro, lanciato poco prima di cadere in coma da Ariel Sharon. Quel che resta del progetto politico di Sharon, nei suoi vari rivoli, è in gran parte alleato del nuovo Labour guidato da Herzog, in un progetto chiamato Unione Sionista. È sull’asse di questa alleanza che si giocano tutte le speranze di un concreto cambio di rotta rispetto al passato.
Di fronte, infatti, c’è ancora una volta Bibi Netanyahu e la sua destra isolazionista in politica internazionale e oltranzista in politica. Per Netanyahu si tratterebbe del sesto mandato, e sarebbe – l’eventuale vittoria – quella più significativa: vorrebbe dire, infatti, che non c’è spazio per nessuna volontà di cambiamento, in Israele né per nessuna speranza di futuro. Il suo programma è chiaro e coerente ormai da decenni: nessuna disponibilità a concessioni territoriali significative ai palestinesi; nessuna disponibilità a ruolo del diritto internazionale né delle organizzazioni che (certo, assai debolmente e con tante incoerenze) lo rappresentano; nessun orizzonte di una soluzione definitiva del problema storico del conflitto. Non dipende, per Netanyahu, da chi si ha di fronte: il problema, nella realtà, non sono le posizioni oltranziste di Hamas o l’utilizzo del terrorismo. Il problema è il concetto stesso di uno Stato palestinese nato dal compromesso politico.
La partita che si gioca Herzog, dunque, è quella di provare a riportare Israele e il sionismo nella storia. Non è una partita facile. Una volta ottenuta una vittoria ancora incertissima, la coalizione di centrosinistra si troverebbe di fronte i problemi di sempre. Una controparte palestinese davvero poco affidabile quando si tratta di rinunciare alla propaganda per fare davvero politica, e quindi stringere compromessi. Una società israeliana sempre più stanca e chiusa, con cui fare i conti. Una violenza sempre latente e sempre pronta a riesplodere. Uno scenario internazionale che – da qui siamo partiti – ha sempre meno interesse alla questione, un Obama a fine mandato, un’America al bivio tra un rilancio internazionalista e la scoperta, tutto sommato confortevole, che si può stare bene anche stando tranquilli nel proprio-paese continente.
Questioni di grande rilievo, non c’è dubbio. Ma la storia, prima o poi, dovrà ricominciare a muoversi. Vent’anni di Netanyahu – come premier o come capo dell’opposizione sempre in agguato – hanno dimostrato che due popoli possono sopravvivere anche senza darsi una prospettiva che consenta di guardare più in là del presente. Ma anche che non cercare una soluzione alla più annosa questione della politica internazionale continua ad alimentare propagande contrapposte. Capiamo bene le ragioni degli opposti propagandisti, dalle destre europee e americane giù giù fino ai tagliagole dell’Isis. Speriamo che il popolo israeliano, domani, decida di stare da un’altra parte.
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