Medio Oriente
Come non abituarsi alla guerra
Manuela to Fiammetta
Cara Fiammetta,
In questi giorni stavo cercando del materiale e mi è capitato tra le mani un articolo che parlava di un’altra guerra, di un anno fa. Esattamente un anno fa. Mi ero dimenticata quella mini-guerra di solo un anno fa. Come può essere?
Certo questa guerra non ancora finita, particolarmente dolorosa e truce, sarà difficile da dimenticare, come quella non meno dolorosa di cinquant’anni fa, la guerra di kippur.
E mi è venuta paura. La paura di assuefarmi. Di dimenticarmi. Di abituarmi. Di diventare impermeabile alla sofferenza quando diventa troppa. Di cancellare i ricordi.
Non voglio abituarmi alla guerra, abituarmi alla morte di ragazzi di vent’anni, di giovani padri di famiglia. Non voglio accorgermi di conoscere troppo bene il rito al cimitero, di sapermi comportare nel migliore dei modi con la famiglia affranta e dire la parola giusta. Dopo tutto sono riti e parole che ripeto da tanti anni. E non voglio neanche perdere l’empatia per il nemico dalla parte apposta, se il nemico è un civile innocente proprio come me. A volte mi dimentico persino come possa essere la vita senza la guerra. Come sia occuparsi solo dei propri problemi personali e non di quelli del tuo paese, di non dovermi preoccupare se il mio paese ancora esisterà e come esisterà tra venti o cinquanta anni o domani mattina.E per non abituarmi devo continuare a pensarci e a lavorarci e a cercare progetti di pace e di lavoro per il futuro.
Chi non crede che la pace sia possibile accetta che, come il caldo d’estate e la pioggia d’inverno, la guerra sarà sempre parte della nostra vita e che non ci sarà altra scelta.
Io non ci sto. Su questo sì che sono disposta a combattere.
Fiammetta to Manuela
Manuela cara,
Hai ragione.
Forse non si può vincere la Pace ma si possono combattere, quotidianamente, tante battaglie per il raggiungimento della pace e soprattutto, come dici tu, per non assuefarsi alla guerra.
La mia battaglia quotidiana è quella di aver iscritto Enrico a Tabeetha, una scuola mista, in cui studiano bambini ebrei, musulmani, cristiani e anche internazionali, di tutti i paesi e di tutte le religioni del mondo. Festeggiano tutte le feste – di tutte e tre le religioni monoteiste – e imparano l’uno dall’altro a rispettarsi nella loro diversità.
Anche Sami, lo storico bidello, arabo musulmano di Jaffa, il quartiere in cui si trova la scuola, negli anni ha imparato a memoria i nomi di tutti i bambini e a dire “buon giorno” nella lingua del bambino che entra a scuola.
“Buenas Dias” quando entra in classe Nico, che arriva dalla Spagna, “Ohayo Gosaimasu” a Juno, la compagna di classe giapponese di Enrico, e così via.
Quando il 7 ottobre è successo quello che è successo e sono state chiuse immediatamente tutte le scuole, Sami ha scritto a Udi, mio marito, per sapere come stavamo noi e la nostra famiglia.
All’epoca non si avevano tracce di Gal, un nipote di Udi che era andato al Nova Musica Festival.
Dopo qualche giorno, hanno ritrovato il corpo, trucidato da Hamas. Quando Udi ha informato Sami, che ha continuato a scrivergli per tutti i giorni successivi, Sami ci ha invitato a pranzo a casa sua, perché la nostra e la sua famiglia si conoscessero.
Da allora Sami ha perso otto dei suoi famigliari che vivono nella Striscia di Gaza.
Ogni volta che muore qualcuno lo racconta a Udi, quando porta Enrico a scuola, e ogni volta Udi lo abbraccia, gli dice che gli dispiace e se possono bersi un caffè assieme.
Questo è il nostro modo quotidiano di praticare la pace.
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