Medio Oriente
Caro Trump, “I am not your toy!”
From: fiammetta martegani
To: Susan Dabbous
14 maggio 1948. Con lo scadere del Mandato Britannico e a seguito del Piano di partizione della Palestina (Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ ONU del 29 novembre 1947) alle ore 16.00 David Ben Gurion, dichiara nell’allora Museo di Tel Aviv, la fondazione ufficiale dello Stato di Israele.
La diretta conseguenza, a meno di 24 ore di distanza dalla sua fondazione, è l’attacco simultaneo a Israele da parte degli esericiti provenienti da Egitto, Giordania, Siria e Iraq e l’inizio della cosiddetta Guerra di Indipendenza, come la chiamano gli israeliani o Nakba, in arabo “catastrofe”, come la chiamano i palestinesi, i quali, più di ogni altro popolo della regione, da 70 anni vivono lacerati in un conflitto in cui le parti in causa sono molto più di due.
In un giorno come questo Donald Trump ha ben pensato di trasferire l’Ambasciata USA a Gerusalemme per ribadire che Gerusalemme è capitale indiscussa di Israele mentre i Palestinesi, prima ancora di una capitale, stanno aspettando il riconoscimento di uno Stato: una mossa strategica che potrebbe avere conseguenze nefaste per entrambe i popoli.
Del resto la visione globale di Trump sull’intera regione, specie in seguito alle ultime dichiarazioni riguardo l’accordo nucleare con l’Iran, lascia emergere quanto sia lacunosa.
Ma tu, cara Susan, cosa pensi che succederà nei prossimi giorni?
From: susandabbous
To: fiammettamartegani
metta,
questo mese è stato definito da alcuni analisti militari il maggio più pericoloso dal 1967.
Ed infatti la grande grande festa per il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme si è trasformata in un bagno di sangue. Non per i celebranti, beninteso, ma per chi ha protestato contro di loro. Si sono riversati a migliaia sulla frontiera tra la Striscia di Gaza e Israele per dire no allo status quo, per dire che Gerusalemme non è la capitale dello Stato ebraico, per dire che loro, i gazawi, non rinunceranno a vederla in tutta la sua santintà, essendo luogo sacro anche per l’Islam, solo perché una potenza occupante li ha messi in gabbia e ha buttato la chiave.
L’esercito israeliano dal canto suo ha risposto con più freddezza e ferocia nei confronti delle vittime: ha sparato molto di più del solito e ha provocato 53 vittime.
Se guardiamo all’età di queste vittime, tutti giovani, ci sono anche otto minori di sedici anni. Le notizie del massacro però non hanno rovinato la cerimonia: Ivanka Trump non si è scomposta, ha continuato a sorridere come una vera first lady e con il suo abitino beige color pietra di Gerusalemme, ha tirato giù il velo che copriva la targa con la nuova insegna dell’Ambasciata USA «Gerusalemme, la capitale di Israele». E giù appalusi, commozione.
I morti a Gaza? Sono terroristi, «se la sono cercata».
Diversa è stata certo la reazione della borghesia palestinese di Ramallah, ammutolita dal peso schiacciante di una storia inverosimilmente ingiusta. Nessuno si è fatto sparare addosso, ma nel segreto delle proprie case, questa si è chiesta: se a Israele avete dato Gerusalemme, a noi cosa date?
From: susandabbous
To: fiammettamartegani
Carissima Susan, per rispondere a questa domanda sarebbe davvero interessante sapere cosa ne pensa Mr. Trump che, a quanto pare, ha sempre un’opinione su tutto.
Mentre si cerca di capire quali siano le conseguenze di questo sofferto o celebrato 14 maggio, gli israeliani in questi giorni sembrano essersi dimenticati di tutto il resto, accordi nucleari compresi, essendo molto più impegnati a celebrare la vittoria di Netta Barzilai, vincitrice di Eurovision 2018 con la canzone, già diventata tormentone, “Toy”: un inno al movimento #Metoo, soprattutto coi tempi che corrono.
Il successo inaspettato di Netta, cantante semi sconosciuta fino all’altroieri anche in Israele e l’opposto del “modello Shakira” sia nella forma che nei contenuti dei suoi testi, sembra essere diventato in questi giorni la risposta israeliana a tutti i problemi, incluso l’Iran, ragion per cui lo stesso Bibi, stando alla telefonata delle 3 di notte alla nuova stella israeliana, non aveva niente da fare di meglio in questi giorni che passare la notte sveeglio a guardare la finale dell’Eurovision, assieme alle migliaia di israeliani che per celebrare il successo di Netta si sono rovesciati sulle strade di Tel Aviv e in Kikar Rabin come raramente succede quando invece sono chiamati a protestare per il malgoverno del Premier, non soltanto in politica estera ma anche in politica interna. Il conflitto arabo-israeliano, infatti, è solo uno dei problemi che attanagliano il paese assieme al carovita, la mancanza di una divisione tra religione e stato, i problemi delle diverse minoranze etniche e una lista talmente lunga di problemi per cui meglio chiudere un’occhio, anzi, due, e farsi trasportare dalla musica.
Parafrasando Neta, mi piacerebbe poter rispondere a Bibi e Trump, da parte di tutto il paese: “I am not your toy!”
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