Medio Oriente
Ali, 18 mesi, morto bruciato in Palestina, non è un simbolo. Era un bambino
Ali Dawabsheh. Ali Dawabsheh. Ali Dawabsheh. Ripetiamo il suo nome, impariamolo, perché non è solo un simbolo: è una persona. Era una persona, era un bambino. Chi era? Aveva un anno e mezzo, era un bimbo palestinese, figlio di cittadini palestinesi di Nablus, nord della Cisgiordania. È lui la prima vittima dell’attacco terroristico che due giorni fa gli ha tolto la vita. Ad appiccare il fuoco nella casa che abitava con la sua famiglia, alcuni terroristi di religione ebraica e di cittadinanza israeliana. “Sono coloni”, si dice. Cosa sono i “coloni”? La parola sembra ormai una metafora, tutti la usano, in tanti non sanno bene cosa significhi. Sono persone, di religione ebraica e cittadinanza israeliana, che dopo il 1967 e la Guerra dei Sei Giorni hanno iniziato a trasferirsi nei territori occupati da Israele: in Cisgiordania e a Gaza. A Gaza – dove erano poche migliaia e dirottavano miliardi di dollari in protezioni e irrigazioni circondati da circa un milione e mezzo di palestinesi – non ci sono più, perché nel 2005 Ariel Sharon, allora primo Ministro, decise che non potevano starci più, soprattutto per ragioni economiche e simboliche. Ma in Cisgiordania ci sono ancora.
Alcuni, molti, vivono in centri ormai grossi, come Malee Adumim, vere e proprie città cresciute lungo i decenni. Altri vivono in villaggi isolati, incuneati nel cuore delle zone palestinesi che un giorno – forse, in teoria, chissà se mai quando – dovrebbero diventare “stato di Palestina”. Nel 1967 tra Israele e i vicini di casa arabi scoppiò una guerra, chiamata Guerra dei Sei Giorni per la breve durata che ebbe. Naturalmente, come tutto da quelle parti, il mondo arabo parla di un proditorio attacco di Israele ai danni delle truppe egiziane, mentre le fonti israeliane raccontano una guerra difensiva, mentre l’Egitto e tutti i suoi alleati alzavano la pressione nei confronti d’Israele, e Gerusalemme dovette attaccare in anticipo prima di essere attaccata. Dove sta la vera verità? In un mezzo complicatissimo, perché allora c’era anche la guerra fredda in corso e Nasser, idolo egiziano della grande nazione araba era affiancato nei suoi disegni anche dall’Unione Sovietica, che meno di venti anni prima era stata tra le più valide alleate del popolo ebraico che – forte di ondate migratorie importanti verso la Palestina dall’Europa, di guerre di conquista e di accordi internazionali – rivendicava un diritto alla nascita dello stato d’Israele in Palestina. E insomma, contro tutti gli stati arabi Israele vince, in appena sei giorni, una guerra che sembrava complicata. Vince, conquista, dispone.
“Chi ha iniziato?”. La domanda che si fa all’asilo da quelle parti te la pongono ancora, più o meno tutti. Noi, fortunati perché altrove, possiamo guardare la storia dal lato di come si è evoluta. Appena vinta la guerra le truppe di Israele prendono possesso della Città Vecchia di Gerusalemme, cuore sacro delle tre religioni monoteistiche ma sicuramente dell’ebraismo e del cristianesimo in misura maggiore, essendo il luogo fondativo per entrambe, che però, dopo la guerra del 1948, apparteneva alla Giordania. Proprio per le sue radici sacre a qualche miliardo di esseri umani, quando in sede Onu si disponeva la nascita d’Israele, si era deciso che Gerusalemme sarebbe stata all’interno del perimetro dello Stato Ebraico, ma sotto tutela internazionale, godendo di uno statuto autonomo e vigilato dalle istituzioni internazionali. Così non fu: i paesi arabi non accettarono la risoluzione delle Nazioni Unite, attaccarono i territori già ampiamente popolati da ebrei, e persero. Nel riassetto, Israele riuscì a nascere e Gerusalemme fu Giordana. Alla fine dei Sei Giorni del 1967, gli israeliani invece prendono possesso della Città e, immediatamente radono al suolo, tutte le costruzioni che occupavano il piazzale che sta di fronte al “Muro del Pianto”.
Il disegno è chiaro, o almeno apparirà chiaro subito dopo: quel luogo, quel muro, che è quel che resta dello storico tempio di Re Salomone distrutto dai Romani – i nostri avi, proprio loro – subito dopo la morte di Cristo deve diventare un luogo simbolico e accogliente per l’ebraismo mondiale. Sulle ceneri di una guerra, quella dei Sei Giorni, il popolo di Israele ritrova dunque un grande spazio di preghiera, di identità, inevitabilmente di propaganda. Perché la rimozione immediata di ogni memoria del recente passato (arabi, giordano, palestinese) sta sicuramente alla voce “propaganda”. Lì attorno, poco dopo, inizia a sorgere il quartiere ebraico di Gerusalemme. Invero, i primi insediamenti di ebrei religiosi c’erano già. Sia nella città vecchia, a ridosso del muro, sia soprattutto fuori, dove vivevano a decine di migliaia gli ultraortodossi dei quartieri religosi: ma la loro, checchè se ne dica, è proprio un’altra storia, visto che erano emigrati nella seconda metà dell’Ottocento dalla Polonia, dalla Russia, dall’Ungheria, un po’ per scappare dai Pogrom e un po’ perché – sapevano, speravano, credevano – che presto sarebbe arrivato il Messia. Quando nacque Istraele – politico e socialista, com’era il padre Ben Gurion – non ne volevano proprio sapere, e per convincere a non rompere troppo le scatole, e a mettere a disposizione di Israele la loro tradizione di ebrei est-europei, la loro lingua Yiddish gelosamente conservata e ormai distrutta da Hitler e dai suoi alleati, Ben Gurion dovette promettere agli ultraortodossi che popolavano già Gerusalemme che li avebbe mantenuti a spese dello stato, cioè di tutti gli altri, e così fu. Ma questo avveniva prima, “molto” prima, nel 1948 in cui Israele fu fondato.
Noi, invece, eravamo nel 1967, quando “nascono” i coloni. Chi sono? In quella guerra Israele non conquista solo Gerusalemme. Conquista anche la cosiddetta Cisgiordania, la parte occidentale della Giordania, che si estende a ovest del Giordano e che prima era, appunto, regno di Giordania. Quando si perde una guerra, del resto, si perde della terra. Terra e città: Ramallah, Nablus, Hebron, per dirne qualcuna. E poi il Sinai, dall’altra parte, che era egiziano, e Gaza. La politica e la fede non camminano mai del tutto insieme, neanche laggià. Il caso volle, ad esempio, che alla sua nascita Israele non avesse nessuno dei luoghi simbolici e storici più importanti per la religione ebraica. Erano tutti in Giordania. Hebron, ad esempio, la città di Abramo, addirittura. E il Sinai, dove Mosè vagò quarantanni prima di morire – destino baro dei grandi condottieri – alle porte della Terra Promessa. E Gerusalemme, appunto. Così, alla conquista dei Territori sacri, per molti cittadini israeliani di religione ebraica sembrò finalmente sanata una ferita. “Quella è roba nostra”. Un po’ come D’Annunzio, protofascita, urlava che “Fiume era roba nostra”, loro andarono alla conquista del loro west, che era in realtà ad Est. Era tempo di “colonizzare”.
Molti erano mossi da ragioni religiose, volevano accampare le loro vite vicine al fondamento storico della loro fede e della loro appartenenza al popolo ebraico. Vicino a dove Abramo, nell’incontro con Lui, fondò una storia millenaria. Vicino a dove i profeti, nel deserto popolato di locuste e predoni, sferzavano un popolo pigro alla fede e alle opere. Ma la fede, si sa, si nasconde del segreto dei cuori e spesso germoglia da alberi diversi. Negli anni in cui ho frequentato Israele e ci ho lavorato come giornalista, ho conosciuto “coloni”, diversi, che sembravano mossi da ben altre ragioni, da tutt’altre spinte. Qualcuno aveva voglia di una vita “diversa” da quella borghese e senza identità che si vive in una specie di piccola San Francisco, e questa è Tel Aviv. Altri si dicevano stanchi della poltiglia di città informi e inutili, in Israele ce ne sono diverse, e preferivano la vita di mare – meravigliose le spiagge di Gaza, con ville californiane e acqua e terra rubate ai palestinesi – o quella desertica. Qualcuno, senza forse saperlo, era uscito deluso dal ‘68 europeo o americano, e aveva pensato che una nuova frontiera da varcare sanasse – chissà come, poi – la nostalgia per quel sogno di giustizia che andava svanendo in Occidente. Altri, più prosaici, andavano a vivere in posti brutti e pericolosi – perché nel frattempo in Palestina scapparono nei decenni un paio di Intifade, e i coloni erano i primi della lista – perché costava ovviamente poco. Il mercato in certi casi fa prezzi bassi, e il resto lo facevano i governi israeliani che in vario modo incentivarono la colonizzazioni con sgravi fiscali e altre amenità.
Qual era e qual è il vero problema? Che nei territori conquistati da Israele vivono diversi milioni di arabi, cittadini giordani (o egiziani) fino al giorno prima, cui fu tolta la vecchia cittadinanza (non senza sollievo da parte dei paesi arabi), senza assegnarne una nuova. Perché, detta brutalmente, si possono anche conquistare territori in guerra, perfino pochi decenni fa. Quel che non può succedere è che i conquistati non diventino cittadini. Ovviamente, questo è l’ultimo dei desideri di Israele, ed anzi è il più grande terrore, perché qualora fossero diventati cittadini, i palestinesi dei Territori Occupati, avrebbero conquistato in fretta la maggioranza demografica e – di fatto – politica. Esattamente quello che Israele vuole evitare.
Nel mezzo, naturalmente, ci sono mille altre storie non meno importanti. Il regno di Arafat sulla Paletina, la sua propaganda e i suoi amici influenti, il terrorismo diventato Nobel per la pace, la corruzione e il patrimonio sterminato lasciato alla moglie. La vittoria di Hamas e dei movimenti islamici come ribellione (anche) al socialismo magna-magna dell’Olp. E anche in Israele, ci sono tante storie. Il movimento nazional-religoso – quello dei coloni, sempre loro – che si mangia pezzi di società, Gerusalemme che diventa ormai una città per soli religiosi, in cui quando inizia il Sabato tutto si spegne e tutto si chiude, l’ultima speranza di una pace, una qualsiasi, che muore all’inizio del 2006 con l’ictus che si prende – pensate un po’ – il pachiderma Bulldozer Sharon, che voleva passare alla storia come l’uomo della pace e non come quello di Sabra e Shatile e, di lì a pochi mesi, avrebbe affrontato le elezioni con un nuovo partito nato proprio per fare una pace con il nemico.
Tante storie, troppe storie. Ali Dawabsheh. Ali Dawabsheh. Noi eravamo partiti da lui. Diciotto mesi. Arso vivo in un attentato. Eravamo partiti da lui premettendo – promettendo – che non ne avremmo fatto solo un simbolo, che la sua piccola grande vita spezzata meritava di più. La storia laggiù è invadente e ogni volta che sfonda le porte e versa del sangue trasforma ogni vittima in simbolo. Basta vedere cosa succede quando, di fronte a un evento del genere, prende una posizione chiara e netta il presidente israeliano Reuven Rivlin. Un uomo di destra, solidamente sionista, che dice semplicemente il giusto. “Più che vergogna provo dolore, perché membri del mio popolo hanno scelto il terrorismo e hanno perso il volto umano. La loro strada non è la mia, non è la nostra”, attaccando anche una certa debolezza che le autorità israeliane hanno attribuito al terrorismo ebraico: lo stesso – e non può essere un inciso – che uccise Rabin alla vigilia di una pace difficile ma possibile con i palestinesi. Alle parole del presidente, che ho raccolto grazie alla segnalazione di un giornalista ebreo italiano da sempre sensibile, Stefano Jesurum, risponde però un pezzo di quel popolo. Che lo condanna per aver perso i sentimenti ebraici. Che rimbrotta il presidente perché i terroristi sono solo quattro fanatici. Che si chiede, addirittura, se non sia il segno di demenza senile. Arrivando alle immancabili minacce di morte. E del resto, dall’altro lato della “barricata”, si spiega che “questo è Israele”, che la morte di un bambino è solo l’ennesima prova della cultura disumana che fonda lo stato ebraico. Succede laggiù e succede sempre, sconsideratamente, qua, con la banalizzazione dei 140 caratteri o della vignetta idiota. Nel mezzo, flebili, voci di compassione e ragionamento, di rispetto e di attenzione.
Non volevamo fare di te un simbolo, Ali Dawabsheh, perdonaci, perdonali. Sei nato “solo” nel posto sbagliato.
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