Medio Oriente
A proposito di Trump, Gerusalemme…e Tel Aviv
From: susan dabbous
To: fiammetta martegani
Carissima Fiammetta,
grazie per avermi invitata a uno dei tuoi eventi che organizzi per la comunità italiana a Tel Aviv, a cui io sogno sempre di poter partecipare dall’austera Gerusalemme in cui vivo da ben 4 anni.
Buffo che, pur se così vicine, non ci siamo ancora mai incontrate. Eppure ti sento così vicina, italiana io, italiana tu. O almeno in grandi linee. Scrittrice tu, scrittrice io, o almeno lo siamo state. Mamma io, mamma tu. Quello lo saremo per sempre.
Mi hai chiesto come stiamo vivendo in città il riconoscimento, da parte del presidente americano Trump, di Gerusalemme come capitale di Israele.
Oggi, a distanza di qualche giorno, ti posso rispondere con razionalità e sangue freddo: credo che nella vita di tutti giorni non cambierà assolutamente nulla. Ma nei giorni precedenti all’annuncio, quando pensavamo di essere sull’orlo di una nuova fase di questo perenne conflitto, invece, sono andata in agitazione. Ho chiamato mio marito Richard, che era a Londra per lavoro, dicendo che me ne volevo andare. Per sempre. Nel giro di pochi secondi avevo già trovato casa, asilo nido e tata a Roma. A Richard sarebbe toccata la vita del pendolare, a Roma due week end al mese solo per viziare i figli e poi via a Gerusalemme a produrre news per la BBC, senza orari e senza separazione tra lavoro e tempo libero. Quella vita insana che fa male a corpo e spirito.
Fortunatamente la terza intifada non è scoppiata e l’unità della mia famiglia è salva. Non me ne vado, resteremo qui aggrappati a questa città incomprensibile e spigolosa ancora per un po’. Le proteste per quanto violente non hanno innescato una miccia duratura. La verità è che anche i palestinesi sono stanchi delle violenze. Perdere la vita per lanciare pietre non è più jihad, guerra santa, ma solo un modo banale di darla vinta a chi ha voltato le spalle a questo popolo rassegnato e stanco. Scriverei per ore, ma purtroppo devo scappare, il mio piccolino di 7 mesi (e 10 chili) sbraita dalla fame.
A prestissimo!
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Carissima Susan,
io non vivo a Gerusalemme per cui faccio abbastanza in fretta a fare dell’ironia sul Presidente Trump, dall’agio della confortevole “bolla” di Tel Aviv.
Ma quando dici che vorresti andartene per sempre, come madre, credo di capire molto bene cosa provi.
Da quando è nato mio figlio, infatti, non mi sono ancora trovata nella situazione di avere 90 secondi di tempo per nascondermi in un bunker, come mi era capitato nel 2014, durante la cosiddetta operazione “Margine di protezione”.
Qui ogni guerra ha il suo nome, e ce ne sono state talmente tante che spesso gli israeliani stessi si confondono tra un nome e un altro, un anno e l’altro, un conflitto e un altro.
Da cittadina italiana, avere messo al mondo un figlio con un passaporto israeliano, sapendo che a diciotto anni sarà costretto ad arruolarsi per almeno 3 anni della sua vita, è una cosa che a volte non ti lascia dormire la notte. E ora ha solo un anno e sette mesi.
Tutti qui dicono: “ce ne vuole di tempo prima che compia 18 anni”.
Ma la verità più triste è che nei prossimi 16 anni probabilmente qui non cambierà nulla. Rimarremo tutti congelati nella trappola dello status quo, aldilà di tutte le dichiarazioni dei vari Trump del caso.
Che poi ci pensi a spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme? I primi a ribellarsi sarebbero gli stessi impiegati americani. Abituati come sono a vivere nella bolla di Tel Aviv, tra spiaggia e bar, non sarebbero mai disposti a spostarsi a Gerusalemme, che invece ogni giorno diventa sempre meno laica e più estremista.
Come dici tu, siamo davvero così vicine eppure così lontane…
From: susan dabbous
To: fiammetta martegani
Cara Fiammetta,
pensa che io sono andata in Italia a partorire proprio per evitare di dare ai miei figli un luogo di nascita così controverso e conteso, come Gerusalemme: una specie di profezia che ho voluto spezzare, essendo nata io ad Aleppo.
Mi sono sentita chiedere centinaia di volte, alle frontiere, agli aeroporti, spiegazioni su questo luogo di nascita così “sbagliato”.
Mi sono dovuta giustificare, ed è sempre umiliante: sono nata in Siria, ma non sono una terrorista.
Così quando ho scoperto di essere incinta a Gerusalemme, proprio durante l’operazione Margine di Protezione, nel 2014, ho deciso che mai e poi mai avrei trasferito sui miei figli questa “croce” della complessità mediorientale.
Quindi sai che ti dico, che tu hai avuto davvero coraggio: hai preso una decisione forte perché sei una persona forte, e ti ammiro.
Io al contrario, mi sento una vigliacca, vivo questo luogo solo prendendone i lati positivi: l’estremo fascino, la sua magia,vivo come un orientalista anche se sono io stessa mediorentale.
Credo di non avere la forza di guardare davvero in faccia la realtà e prendere una decisione. Vivo a Gerusalemme Ovest, anche se il cuore è a Est. Simpatizzo più coi palestinesi ma mi sento più al sicuro in Israele dove l’estremismo religioso riguarda solo gli ebrei.
Avevo degli amici israeliani a Gerusalemme che sono andati via perché non ne potevano più del clima oppressivo, dell’austerità della religione, della morte sociale nel giorno di Shabbat.
Su di me non hanno nessun effetto i proclami degli ultraortodossi al megafono quando passano il venerdì mattina tra i negozi, scagliando anatemi contro chi decide di non abbassare le saracinesche prima del tramonto. Li trovo solo folkloristici, non mi scalfiscono.
Io, a differenza tua, non sono ebrea, costretta a decidere per i miei figli tra una scuola statale laica, dove i ceti sociali non religiosi corrispondono a quelli con inferiore tasso di educazione, e una scuola religiosa, migliore, ma contraria ai miei principi.
Dall’altro lato, non sono neanche palestinese: non ho un muro davanti a casa che mi impedisce di andare dove voglio. Non ho bisogno di un permesso israeliano per andare a trovare un parente, frequentare una buona università o fare una visita medica. Non ho restrizioni di diritti civili e politici in base al luogo di residenza. Non rischio di vedermi la casa espropriata, o rasa al suolo, se qualcuno nella mia palazzina decide di darsi alla lotta armata.
Insomma, mi sento una privilegiata. Osservo con attenzione tutto ciò che mi accade attorno sapendo che prima o poi il lavoro mio e di mio marito ci condurrà altrove.
Mi sento una scroccona: vivo in una città che tutti si contendono senza aver fatto nulla per meritarlo. È un privilegio così grande da essere quasi insostenibile.
Per questo dopo un po’ di tempo bisogna andarsene.
Forse questa potrebbe essere la soluzione al problema di Gerusalemme: un sistema di turnazione?
From: fiammetta martegani
To: susan dabbous
Un sistema di turnazione? Mica male come soluzione, Susan. Si potrebbe far governare Gerusalemme a turni di quattro anni, come quelli di un governo: un mandato per gli ebrei, uno per i cristiani, uno per i musulmani. Per assurdo, se fosse possibile, sarebbe bello concedere un turno anche ai cittadini di Tel Aviv.
Te la immagini Gerusalemme, per quattro anni, con i ristoranti aperti a Shabbat, i gay party sui tetti della città e le biciclette che scorazzano per le strade il giorno di Yom Kippur?
Praticamente non sarebbe più Gerusalemme, ma una Tel Aviv senza il mare.
Il mare. Non ci avevo mai pensato. Forse il mare sta a Tel Aviv come a Gerusalemme sta il Muro del Pianto per gli ebrei, la Spianata delle Moschee per i musulmani e il Santo Sepolcro per i cristiani.
Il mare, per i telaviviani, non è soltanto una spiaggia su cui passare il fine settimana: è sinonimo di libertà.
È il mare che hanno attraversato i primi sionisti in arrivo dall’Europa per fondare lo Stato per gli ebrei, allora perseguitati nel Vecchio Continente.
È il Mediterraneo che hanno attraversato su pescherecci improvvisati i sopravvissuti ai campi di concentramento che non avevano altra “casa” a cui fare ritorno, se non la Terra Promessa.
Il vero problema di questa Terra é che, da millenni, è stata promessa da diversi leader spirituali e politici a popoli e religioni diverse e per questo è e sarà, per sempre, contesa.
Alcuni sostengono che lo stesso Presidente Trump stia cercando di “appropiarsene” per soddisfare gli animi della sempre più potente lobby evangelica americana.
Sarebbe bello, se questa Terra potesse parlare, poterle chiedere a chi si sente di appartenere.
Probabilmente risponderebbe: “A chiunque mi ami e mi rispetti”.
Forse, il vero problema, non è quello dell’appartenenza, ma quello del rispetto: nei confronti di questa Terra e nei confronto di chi ci vive, da entrambe le parti.
Che poi, queste parti, sono molto più di due: sono israeliani e palestinesi; sono musulmani, ebrei, cristiani e drusi; sono religiosi e laici; donne e uomini; omosessuali ed etero; Gerusalemme e Tel Aviv.
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