Giustizia

Tutto quello che bisogna sapere sui due marò: l’intervista a Matteo Miavaldi

29 Settembre 2015

La vicenda della petroliera Enrica Lexie e di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i marò accusati dell’omicidio di due pescatori indiani, continua ad essere, inevitabilmente, al centro dell’attenzione. Nel bene e nel male. In questi tre anni è stata letta da alcune forze politiche e da una parte dell’opinione pubblica in una chiave nazionalistica e patriottica, facendo ricorso a toni retorici a tratti inquietanti. Ha messo in luce, secondo altri, dinamiche discutibili e lacunose all’interno dei media italiani. Ha aperto una discussione sulle problematiche burocratiche e giuridiche che intervengono nel regolare i rapporti tra gli stati. Ha sollevato altrettante domande, più che legittime, sulla lentezza con cui procede l’iter giudiziario della vicenda. Ha infine trasformato Latorre e Girone, i due fucilieri di marina accusati di omicidio, in veri e propri tormentoni da social: in parte, una reazione al fitto ricorso alla retorica di cui sopra; in parte, forse, il segnale che ad una presenza ormai radicata nell’immaginario collettivo non corrisponde necessariamente la volontà di approfondire una narrazione ormai sfuggita di mano. A poche settimane dal verdetto del Tribunale di Amburgo, il quale ha stabilito che sarà la Corte arbitrale dell’Aja a decidere l’esito giuridico del contenzioso tra Italia e India, abbiamo interpellato Matteo Miavaldi. Caporedattore Asia per l’agenzia di stampa China Files, collaboratore dall’India per Il Manifesto, titolare del blog Elefanti a parte, ospitato da East – Rivista di Geopolitica, nonché autore del libro “I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto” (Ed. Alegre, 2013), Miavaldi ha seguito la vicenda fin dall’inizio. e continua a farlo (qui la sua analisi sulla presunta discrepanza tra i proiettili ritrovati e le armi dei fucilieri, negli ultimi giorni rilanciate da alcune testate nostrane. Con lui abbiamo ripercorso e cercato di chiarire alcuni snodi. Allargando il quadro allo stato dei media nostrani: il modo in cui hanno affrontato e raccontato gli eventi, sostanzialmente a senso unico, è apparso e appare a chi scrive un preoccupante campanello d’allarme per lo stato di salute dell’informazione in Italia.

Tu hai scritto a lungo, fin dall’inizio, di questa vicenda. Sei autore di numerosi articoli e anche di un libro. Partiamo dai più recenti sviluppi, ovvero il verdetto del Tribunale del Mare di Amburgo. Ci puoi chiarire il senso di quel verdetto e i successivi sviluppi?
Il Tribunale del Mare di Amburgo era chiamato a pronunciarsi solo ed esclusivamente su due aspetti: se interdire l’India dall’esercizio della propria giurisdizione sul caso Enrica Lexie e se ordinarle di sollevare tutte le misure cautelari nei confronti dei due fucilieri di Marina Salvatore Girone (in India) e Massimiliano Latorre (in Italia per effetto di una licenza, accordata ed estesa dalla Corte suprema indiana per quattro volte, in scadenza a metà gennaio 2016). Entrambe le richieste italiane sono state respinte, poiché la Corte ha ritenuto che pronunciarsi su questi temi avrebbe influenzato il prossimo giudizio della Corte arbitrale dell’Aja, che dovrà decidere chi tra India e Italia ha la giurisdizione per potersi occupare dell’omicidio dei due pescatori indiani Ajesh Binki e Valentine Jelastine, per il quale sono accusati i due fucilieri. Ad Amburgo hanno deciso di far sospendere tutti i procedimenti legali in India e Italia che interessano i due fucilieri, in attesa che dall’Aja arrivi la parola finale su chi potrà istruire il processo. Quindi a questo punto si aspetta che la Corte arbitrale venga formata – ancora non è chiaro quando – e arrivi a un verdetto, secondo diversi giuristi non prima di due o tre anni. Nel frattempo l’Italia sicuramente porrà le medesime istanze alla Corte dell’Aja, cercando di arrivare a un ritorno in Italia di Salvatore Girone prima della sentenza sulla giurisdizione. Toccherà vedere la Corte arbitrale cosa deciderà.

Facciamo un passo indietro e torniamo agli eventi iniziali. In discussione non sono tanto i fatti in sé, ovvero l’uccisione di due pescatori indiani scambiati per pirati (anche se sulla dinamica e sulle perizie effettuate restano alcuni interrogativi), ma la giurisdizione: a chi tocca giudicare i due imputati. L’“incidente” è avvenuto in acque internazionali oppure no?
L’incidente è avvenuto a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, all’interno della cosiddetta zona contigua (24 miglia nautiche) e ben all’interno della zona economica speciale (200 miglia nautiche) dell’India. Il problema è la diversa interpretazione della Convenzione sul diritto del Mare dell’Onu (Unclos) che danno i due stati: per l’Italia, 20,5 miglia nautiche sono “acque internazionali” – ma è una dicitura che usiamo quasi solo sulla stampa italiana, tecnicamente non lo sono, sono appunto acque della zona contigua – e quindi l’India non ha la giurisdizione su quella porzione di Oceano indiano; l’India, per contro, rivendica la propria giurisdizione citando leggi specifiche del proprio Codice di procedura penale e due precise riserve con le quali ha ratificato la Unclos. Una, in particolare , indica che l’India permette attività militari di altri stati all’interno della propria zona economica esclusiva (200 miglia nautiche) salvo permesso esplicito di New Delhi: che l’Italia, il 14 febbraio 2012, non aveva (e non ha mai avuto nemmeno successivamente).

Uno dei punti più controversi, fin dall’inizio, correggimi se sbaglio, è la natura stessa dell’ingaggio dei fucilieri di marina: soldati italiani in azione, e dunque soggetti alla giustizia militare (e quindi non a quella di un paese come l’India), oppure, di fatto, forze mercenarie in prestito e al servizio di privati? L’impressione è che la legislazione italiana sull’argomento, introdotta in anni recenti, non contribuisca affatto a fare chiarezza…

Al di là della discussione sulle acque internazionali o meno, l’intero caso ruota attorno a questo punto. Per l’Italia, i fucilieri di Marina a bordo dell’Enrica Lexie sarebbero di fatto soldati in missione antipirateria per conto dello Stato, e quindi coperti dall’immunità funzionale: se commettono reati all’estero, durante una missione, devono essere giudicati da una corte marziale del proprio Stato; l’India, invece, li considera dei contractor, poiché a bordo di un’imbarcazione civile, in una missione che non è stata concordata con lo Stato indiano (e che quindi infrangerebbe la riserva alla Unclos di cui sopra) e che, di conseguenza, New Delhi interpreta come uso di armi da fuoco illegale all’interno del proprio territorio da parte di due cittadini italiani che, secondo quanto sostiene l’India, hanno ammazzato due cittadini indiani. Un crimine che, stando a New Delhi, dovrebbe essere giudicato dalle corti indiane. La sentenza dell’Aja dovrà sciogliere questo nodo, ma possiamo già dire che la natura “mista” dell’ingaggio di personale militare su imbarcazioni civili voluta dal Governo Berlusconi nel 2011 (e votata dalla quasi interezza dell’arco parlamentare) ha creato i presupposti per questo cortocircuito legale internazionale. Il resto del mondo, in stragrande maggioranza, utilizza dei contractor privati per le azioni antipirateria, proprio per evitare il coinvolgimento dello Stato quando sorgessero delle complicazioni o degli incidenti. Il caso Enrica Lexie, per questo, è un unicum nella storia del diritto internazionale: qualsiasi decisione sarà presa all’Aja in termini di giurisdizione è destinata a creare un precedente legale, cioè a fare giurisprudenza.

Una buona fetta dell’opinione pubblica si chiede come mai i tempi della giustizia indiana siano stati, fino a questo momento, così lunghi. A cosa è attribuibile questa lentezza?
Da un lato c’è sicuramente la macchinosità della struttura burocratica indiana, ma dall’altro – sostiene l’India, per quanto mi riguarda a ragione – l’Italia ha adottato in sede legale una strategia dilatoria (e ne aveva tutto il diritto, ci mancherebbe), per ostruire l’istruzione del processo in India, sollevando via via obiezioni alle procedure indiane per quanto riguarda le leggi e la polizia federale che il governo indiano aveva intenzione di usare per formulare la «chargesheet», il documento dell’accusa da presentare alla Corte per poter iniziare il processo. Documento che la National Investigation Agency (Nia), la polizia federale alla quale è stato affidato il caso, ritiene di avere pronto dal novembre del 2013, ma siccome la Corte suprema ha accettato di valutare le obiezioni italiane sulla legittimità della Nia nel prendere parte al processo, è impossibilitata a presentare ai giudici, di fatto risultando in un blocco del processo. Ad esempio, nel 2013, l’Italia si è rifiutata di rimandare in India gli altri quattro fucilieri di Marina a bordo dell’Enrica Lexie per deporre davanti agli inquirenti indiani, contravvenendo agli accordi presi (e firmati) al momento del rilascio dell’equipaggio della petroliera italiana, nel 2012. Da notare il fatto che il resto dell’equipaggio, civile, ha fatto ritorno diligentemente in India; i quattro fucilieri, no. Solo in questo frangente, l’intero procedimento penale ha subìto un ritardo di quattro mesi.

In questi tre anni qualcuno è addirittura arrivato a paventare l’esecuzione dei due fucilieri. Che cosa rischiano, in concreto, Girone e Latorre?
La pena di morte in India viene applicata raramente e secondo un criterio arbitrario dei giudici della Corte suprema, in casi «rarest of the rare», cioè di estrema gravità, violenza o rilevanza pubblica. Il corto circuito è scaturito dalla scelta – infelice – del governo indiano, nel 2013, di affidare il caso alla Nia, una polizia antiterrorismo federale, avvalendosi di una legge federale (il Sua act del 2000) che nei casi di omicidio prevede la pena di morte. Rispondendo alle sacrosante polemiche arrivate dall’Italia, sempre nel 2013, il governo precedente (con l’allora ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid) aveva chiarito in due conferenze stampa e in una lettera indirizzata a Roma la natura dell’applicabilità della pena di morte in India, specificando che in questo caso non esiste nemmeno la remota possibilità che venga comminata (tra l’altro, dal 1947 ad oggi l’India ha applicato la pena di morte esclusivamente a cittadini indiani o pakistani, accusati di terrorismo). Nel novembre del 2013, su Il Manifesto, è stata pubblicata una mia intervista all’allora inviato speciale della presidenza della repubblica italiana Staffan De Mistura – l’uomo che si è occupato del caso Enrica Lexie fino all’inizio del governo Renzi – proprio su questo tema: i chiarimenti di De Mistura, all’epoca, rimasero sistematicamente inascoltati dall’opinione pubblica italiana. Nel frattempo la Corte suprema ha ordinato alla Nia di non ricorrere al Sua act del 2000 e, di conseguenza, i legali italiani hanno richiesto che la Nia sia esclusa dal processo. La Corte suprema, prima che sospendesse i procedimenti legali che interessano i due fucilieri in attesa della sentenza dell’Aja (per effetto della sentenza di Amburgo), stava valutando quest’ultima obiezione italiana.

A margine dei fatti, quello che colpisce, in negativo, è l’insinuarsi di dinamiche di tifo quasi calcistiche anche all’interno del panorama mediatico nostrano. Inevitabile, forse, una certa dose di parzialità, ma la totale assenza di un “contraddittorio” è da un certo punto di vista inquietante. Mi pare che, senza tirare in ballo la malafede e al di là del caso specifico, rappresenti un notevole passo indietro per l’informazione e i suoi doveri deontologici. Come siamo arrivati a questo punto e quali i possibili rimedi dal tuo punto di vista, se ce ne sono?
I passi indietro sarebbero da misurare considerando il punto di partenza da cui vengono fatti. Gli esteri, in Italia, almeno da quando li leggo io con un minimo di cognizione di causa (ho quasi trent’anni), soffrono di un provincialismo incaponito, di una superficialità che ha pochi eguali nella stampa occidentale e, nel caso dell’Asia, di una sindrome da esotismo che non permette un racconto verosimile di posti lontani da noi, non solo geograficamente. L’India, in particolare, prima del caso marò era sempre stata descritta in termini assolutamente idealizzati, alimentando una narrazione degli eccessi: si passava dai templi con le scimmie e gli elefanti, dalla spiritualità prêt-à-porter, alla pornografia della povertà disperante ma col sorriso. In mezzo, nulla. Questo l’inquietante punto di partenza.

Quando col caso Enrica Lexie si è venuta a creare la necessità di approfondire alcuni aspetti concreti della realtà indiana (il suo ordinamento giuridico, ad esempio, o l’effettivo rischio di assalti di pirati al largo delle coste del Kerala, pari a zero), in Italia la stampa ha latitato: in tre anni e mezzo, non ho mai letto non dico un’intervista a un giurista indiano, ma nemmeno a un accademico italiano che si occupasse di giustizia indiana. Si è preferito cavalcare l’onda dello sdegno, equiparando la Corte speciale che si dovrebbe occupare del caso Enrica Lexie in India a un “tribunale speciale” di fascista memoria (illazione ridicola), oppure mischiando le mele con le pere: parlare di “marò” (che, come abbiamo visto, è un complicato caso giuridico e per certi versi molto tecnico) e subito dopo di stupri o di quotidiani episodi di ingiustizia e violenza che interessano l’India: cose che, fino all’altro ieri, nessuno raccontava in Italia (gli stupri, ad esempio, sono una piaga antica qui nel subcontinente), ma ora, in assenza di articoli di altro taglio che rendessero al lettore un’India almeno verosimile, facevano comodo per dipingere l’India come un paese completamente incivile, barbaro, addirittura uno “Stato canaglia che agisce in spregio al diritto internazionale” (opinione che, come abbiamo visto sopra, non ha alcun diritto di cittadinanza, fino a prova contraria).

Costruendo questo scenario, si è permesso il diffondersi di bufale sesquipedali, dal rischio di pena di morte (“vogliono uccidere i nostri marò”) ai marò “prigionieri nelle celle indiane” (e in prigione, in cella, non si sono fatti nemmeno un giorno), glissando abilmente sulle reali condizioni di detenzione di Girone e Latorre: una manciata di mesi in guesthouse governative o in strutture penitenziarie (ma alloggiati nelle sezioni per il personale che in carcere ci lavora); diversi mesi in hotel a 5 stelle del Kerala e, dal gennaio del 2013, in libertà condizionata alloggiati all’interno dell’Ambasciata d’Italia in India, con libertà di movimento in tutto il territorio di New Delhi.Su questo, la politica, in particolare la destra identitaria italiana, si è tuffata a mo’ di avvoltoio, facendo diventare la vicenda Enrica Lexie una questione di orgoglio patrio e machismo militare, fino a prefigurare ipotetici “blitz militari” per liberare i marò dalle grinfie indiane: roba buona per le sceneggiature di Rambo, non per il giornalismo che, ritengo, abbia il compito di approfondire e chiarire ciò che non lo è, soprattutto in una situazione complessa e delicata come questa. Stando così le cose, la posizione indiana – che pure ha fondamenta consistenti nel diritto internazionale – è stata completamente rimossa, non solo in senso figurato: mirabile l’exploit di Repubblica.it, che ha dato in streaming il dibattimento alla Corte del Mare di Amburgo solamente quando parlavano i legali italiani, staccando il collegamento quando sul podio si sono presentati i legali di parte indiana. Senza parlare della sentenza di Amburgo in sé, descritta dalla quasi totalità della stampa come una “vittoria” – facendo eco alle posizioni comprensibilmente parziali del governo italiano – mentre a leggerla, la sentenza, emerge tutt’altro. Possibili rimedi? Ricominciare a fare gli esteri per davvero. Detto poco eh?

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